FOCUS
Concorso apparente di norme e reato complesso in sede dottrinaria e giurisprudenziale. In particolare, i rapporti tra le circostanze aggravanti degli artt. 589 e 590 c.p. introdotte dal D.L. n. 92/2008 e le ipotesi contravvenzionali di cui agli artt. 186 e 187 C.d.S.
dell’Avv. RAFFAELE CARFORA
SOMMARIO: 1. Concorso apparente di norme e reato complesso: cenni introduttivi -2. L’ambito normativo del reato complesso. -3. La novella del 2008 in tema di circostanze aggravanti dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose nella circolazione stradale. -4. I rapporti tra le aggravanti introdotte e i reati contravvenzionali ex artt. 186 e 187 D. Lvo n. 285/1992. -5. Brevi considerazioni sul problema della continuazione nei reati colposi e nelle contravvenzioni.
1. Concorso apparente di norme e reato complesso: cenni introduttivi.
Ai fini precipui della tematica in oggetto si impongono talune preliminari riflessioni in ordine al concorso apparente di norme ed al reato complesso.
Orbene, l’ambito privilegiato d’indagine trova, senza dubbio di sorta, il suo nucleo centrale nel principio di specialità da cui, per ovvie ragioni di matrice metodologica, pare opportuno, sia pur brevemente, prendere le mosse.
Valga premettere che l’ordinamento positivo si ispira al principio di specialità, consacrato nell’art. 15 c.p., fornito dal legislatore quale unico criterio per stabilire se sussista o meno un concorso apparente di norme.
Detto principio, come è noto, postula che una determinata norma incriminatrice (speciale) presenti in sé tutti gli elementi costitutivi di un’altra (generale), oltre a quelli caratteristici della specializzazione; è necessario, cioè, che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro diverso, per cui quello più ampio contenga in sé quello minore, ed abbia, inoltre, un settore residuo, destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità (lex specialis derogat legi generali); siamo nell’ambito del rapporto di specialità <<unilaterale> per cui troverà applicazione soltanto la norma più specifica, ovvero quella che contiene l’elemento <<specializzante>>.
Laddove più norme appaiano applicabili ad un determinato fatto si parla di concorso di norme, occorrendo verificare se tutte debbano spiegare efficacia, nel qual caso avremo un concorso formale eterogeneo di reati, oppure sia soltanto una di esse a dover trovare applicazione, rilevando in tal modo il concorso apparente di norme.
Nella ultima di tali ipotesi, si ravviserà, tuttavia, la necessità di individuare la specifica disposizione normativa da ritenere concretamente operativa.
Decisiva diventa, a tal fine, una corretta interpretazione del concetto di <<stessa materia>> evocato dall’art. 15 c.p., non dovendo sottacere i plurimi interventi delle Sezioni Unite in merito.
La Suprema Corte ha affermato che nel concorso apparente di norme l’individuazione di quella applicabile non deriva dall’identità del bene giuridico protetto dalle disposizioni (apparentemente) confliggenti, e correlativamente la diversità degli interessi tutelati è di per sé inidonea ad escludere l’esistenza del concorso, rilevando, altresì, che è stato invero ritenuto che il riferimento normativo alla <<stessa materia>> non può significare identità del bene giuridico sia per la equivocità ed improprietà della terminologia rispetto alla nozione che avrebbe dovuto esprimere, sia perché resterebbero esclusi dall’ambito di operatività del concorso apparente di norme casi che sono ad esso sicuramente riconducibili.1
Più di recente, le Sezioni Unite hanno stabilito che, al fine di ritenere sussistente il concorso di norme con la conseguente necessità di individuare la norma speciale che deroga a quella generale, è necessaria, innanzitutto, l’identità della natura delle norme, che devono essere tutte norme penali, e poi, l’identità dell’oggetto di tali norme, che devono regolare tutte la stessa materia: devono, cioè, essere caratterizzate dalla identità del bene alla cui tutela finalizzate2.
Successivamente -tornati gli ermellini di nuovo sul punto- si è rilevato che il principio di specialità esiga una pluralità di norme regolatrici della stessa materia -intendendo per stessa materia non l’identità del bene giuridico tutelato, bensì l’esistenza di una medesima situazione di fatto- e, nel contempo, la presenza in una di esse di elementi peculiari che, per la loro specificità, siano da ritenere prevalenti rispetto a quelli della norma concorrente che resta esclusa o assorbita.3
Ciò detto in ordine al concetto di <<stessa materia>>, va evidenziato che se nelle ipotesi di specialità unilaterale non sorgono problemi di sorta nell’ottica dell’applicazione del principio di specialità, non può dirsi lo stesso nei casi in cui bisogna risolvere il conflitto tra fattispecie caratterizzate dalla ricorrenza della cd. <<specialità reciproca o bilaterale>>, in relazione alla quale le fattispecie di reato, poste a confronto, presentano, accanto ad un nucleo comune, uno o più elementi specializzanti differenti.
In soccorso ci si richiama ad altri criteri regolatori, quali quelli di sussidiarietà e di consunzione.
Secondo il criterio di sussidiarietà (lex primaria derogat legi subsidiariae), è sussidiaria la norma che tutela uno stadio o grado inferiore di offesa dell’identico interesse che è protetto dalla norma principale, con la conclusione che la norma superiore esaurisce l’intero disvalore del fatto e quindi sarà la sola che troverà applicazione; alla stregua del criterio di consunzione o assorbimento (lex consumens derogat legi consumptae), invece, è consumante la norma il cui fatto comprende in sè il fatto previsto dalla norma consumata, che perciò esaurisce l’intero disvalore del fatto, perché la commissione di un reato comporta, secondo l’id quod plerumque accidit, anche la commissione dell’altro.4
Tali criteri sono stati invero criticati da buona parte della dottrina in quanto ritenuti privi di fondamento normativo, ed anche in seno alla giurisprudenza di legittimità si è osservato che i giudizi di valore, che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero, sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare col principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale.5
2. L’ambito normativo del reato complesso.
La pluralità di reati conosce una ulteriore formulazione sotto l’etichetta normativa <<reato complesso>> di cui all’art. 84 c.p. che recita:
“Le disposizioni degli articoli precedenti [quelle relative al concorso di reati] non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato.
Qualora la legge, nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79”.
Pertanto, alla luce del tenore letterale della norma, per reato complesso si intende quello nel quale confluiscono, come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti, più fatti che costituirebbero di per sé reato.
Secondo una visione unanime, la categoria normativa di cui alla rubrica dell’art. 84 c.p. contempla due diverse ipotesi di reato complesso (cd. reato complesso in senso stretto o composto): la prima, detta “speciale” o “di primo tipo”, determinata dalla fusione di due reati che sono elementi costitutivi di un terzo reato, altro e differente; la seconda, denominata reato complesso “circostanziato” o “aggravato”, o “di secondo tipo”, che vede un reato come circostanza aggravante di altro reato.
Casi esemplificativi della prima versione sono la rapina (art. 628 c.p.), quale fattispecie criminosa contenente il furto (art. 624 c.p.) e la violenza privata (art. 610 c.p.); della seconda ipotesi, invece, il reato di furto aggravato dalla violazione di domicilio (art. 625 n. 1 c.p.), che ingloba il furto (art. 624 c.p.) e la violazione di domicilio (art. 614 c.p.).
E’ appena il caso di evidenziare talune perplessità avanzate da una acuta dottrina in ordine a tale ultima forma di reato complesso -potenzialmente foriere di sensibili problematiche in campo applicativo- perplessità che meritano di essere analizzate (GAROFOLI).
Un primo dubbio ermeneutico è stato ravvisato nell’ambito della comparazione delle circostanze e della disciplina dettata dall’art. 69 c.p.: ebbene, pur se, da un lato, si tende ad inserire le sole “circostanze pure” nell’alveo applicativo dell’art. 69 c.p., dottrina e giurisprudenza si orientano verso la operatività della disciplina in esso dettata in virtù di una duplice argomentazione.
In primo luogo, l’art. 69 c.p. sì come rinovellato dalla L. n. 220/1974, ha assunto una portata comprensiva tale da riguardare tutte le circostanze senza esclusioni di sorta, essendo state tutte le circostanze, ivi comprese quelle ad “efficacia speciale”, e ad “effetto speciale”, assoggettate al bilanciamento; in secondo luogo, nel corpo dell’art. 84 c.p. non v’è traccia alcuna di precisazioni che rivedano l’ipotesi del reato che assume il ruolo di circostanza aggravante, di guisa che proprio come tale se ne impone l’applicabilità.
Altra questione discussa e sollevata dalla medesima dottrina è quella afferente alla imputazione soggettiva delle circostanze.
Se è vero che la riforma dell’art. 59 c.p. ha introdotto il regime di imputazione soggettiva delle circostanze, nel senso che per la loro configurabilità occorre la sussistenza del dolo o della colpa, il reato autonomamente considerato, quando di natura delittuosa, richiede necessariamente la forma psicologica dolosa.
Ora, a fronte di chi prospetta comunque la applicabilità del regime delle circostanze ritenendo sufficiente la colpa, sebbene per il reato in sé considerato sia necessario il dolo, o di chi, per converso, sostiene la tesi più rigorosa orientata a rispettare il regime psicologico del reato che, affievolendosi, assume il ruolo di circostanza aggravante, l’Autore rileva come il quesito può sciogliersi esclusivamente in base alla natura della circostanza, trattandosi, spesso di “circostanze che, pur essendo teoricamente imputabili a livello di colpa, non possono che manifestarsi con connotazione dolosa”, se solo si pensi, in concreto, al reato di violazione di domicilio che “è strutturato in modo tale che l’agente che si introduce o si intrattiene nell’edificio per commettere il fatto difficilmente vi si troverà <<per caso>> o senza essersene accorto”.
Un terzo, ulteriore, profilo attiene alla dimensione processuale, segnatamente in tema di riverbero dell’applicazione a queste peculiari circostanze della disciplina prevista dal codice di rito in ordine alla competenza per materia del giudice penale.
Come noto, a norma dell’art. 4 c.p.p., “Per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto [….] delle circostanze, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”.
Posto il problema della estensibilità di detto principio alle particolari circostanze che, di per sé considerate, costituirebbero reato, si è privilegiata, da un canto, la soluzione di tipo formale, tesa a valutarle come vere e proprie circostanze, obiettandosi, dall’altro, in ottica sostanziale, che si tratta invece di fatti di reato che, in quanto tali, spiegano la loro efficacia in punto di determinazione della competenza.
L’Autore, ridimensionando le difficoltà delle conseguenze nella prassi giudiziaria, atteso che le eccezioni stabilite dall’art. 4 c.p.p. paiono riferibili proprio alla ipotesi del reato complesso in esame, osserva, infatti, che “pur non trattandosi di un principio assoluto, le aggravanti che costituiscono fatti autonomi di reato hanno una rilevanza sanzionatoria notevole rientrando tendenzialmente nell’ambito delle circostanze che, in via di eccezione, il legislatore considera rilevanti ai fini della determinazione della competenza”.
Ciò detto, si segnala, inoltre, in dottrina una aperta disputa in ordine alla sussumibilità o meno sotto l’ègida dell’art. 84 c.p.p, oltre che del reato complesso in senso stretto, che comprende più fatti costituenti reato, anche del reato complesso cd. in senso lato, per la cui configurabilità è sufficiente un solo reato unitamente all’aggiunta di ulteriori elementi non costituenti reato; si pone, in quest’ottica, l’esempio del reato di violenza sessuale, composto dal reato di violenza privata (610 c.p.), e dal compimento di atti sessuali che, che di per sé stessi, non rientrano nella sfera del penalmente rilevante (PADOVANI, VASSALLI).
Parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene applicabili anche ai reati complessi in senso lato sia l’art. 84 primo comma, c.p., sia gli artt. 131 e 170 secondo comma c.p., nella misura in cui v’è comunque un reato che ne include un altro, di guisa che si avrebbe reato complesso, in senso stretto o lato, in tutte le ipotesi in cui vi sia tra le fattispecie un rapporto di specialità per aggiunta, mentre l’art. 15 risulterebbe applicabile solo nei casi in cui tra le fattispecie vi sia un rapporto di specialità per specificazione; difatti, tornando all’esempio precedente, la medesima dottrina reputa il delitto di violenza sessuale in senso lato rispetto ai reati di percosse e minacce, costituendo la violenza sessuale una specificazione della violenza privata (MANTOVANI).
L’orientamento prevalente maturato, in dottrina e giurisprudenza, tende, tuttavia, a negare valenza ontologica alla figura del reato complesso in senso lato, in quanto indicativa di un mero rapporto di specialità tra fattispecie (FIANDACA-MUSCO); si è autorevolmente osservato, inoltre, come non possa l’art. 131 c.p. trovare applicazione ai reati complessi in senso lato, pena dover ritenersi che il reato di violenza sessuale sia sempre perseguibile d’ufficio, a dispetto di quanto previsto dall’art. 609-septies c.p., posto che per il delitto di violenza privata è prevista la procedibilità d’ufficio (VASSALLI)6.
In sede di legittimità, in adesione alla prima opzione, si è ritenuto che per la sussistenza del reato complesso in senso lato è sufficiente un solo reato con l’aggiunta di ulteriori elementi non costituenti reato, mentre per la configurabilità del reato complesso in senso stretto occorrono due reati7; in senso contrario, si è obiettato, invece, che il delitto di violenza sessuale aggravata dalla circostanza che la persona era comunque sottoposta a limitazione della libertà personale, non assorbe quello di sequestro di persona, perchè non rappresenta un reato complesso, per la sussistenza del quale è necessario che l’astratta formulazione della fattispecie incriminatrice faccia riferimento -o come elemento costitutivo o come circostanza aggravante- ad un fatto che costituisca di per sé reato. La descrizione legislativa dell’aggravante di cui al n. 4 dell’art. 609-ter c.p. non presenta, invece, tale caratteristica: essa include non solo la condizione di vittima di sequestro di persona, ma una pluralità di situazione anche prive di rilevanza penale (ad esempio, lo stato di detenzione, o quello di ricovero presso una struttura ospedaliera con restrizioni, ovvero l’accidentale restrizione della libertà di locomozione all’interno di un edificio)8.
Ulteriore problema che ci si pone in dottrina è quello relativo alla figura del reato eventualmente complesso: ci si è chiesto, specificamente, se l’art. 84 c.p. faccia riferimento solo ai reati necessariamente complessi, in cui almeno un reato è contenuto come elemento costitutivo di guisa che non è realizzabile la fattispecie senza la commissione di quest’ultimo, od anche ai reati eventualmente complessi, nei quali un reato è contenuto come elemento particolare, sì da ritenersi possibile la realizzazione di tali reati senza la integrazione di quest’ultimo; nel reato eventualmente complesso si sarebbe al cospetto soltanto di una particolare modalità di realizzazione in concreto del fatto tipico, che la legge non identifica quale componente di esso (in dottrina, in senso negativo, PADOVANI; contra, MANTOVANI, per evitare una interpretatio abrogans dell’art. 84 c.p., facendone una inutile duplicazione dell’art. 15 c.p., sì da svuotarlo di contenuto).9
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità tende a ritenere che la complessità è un rapporto che può intercorrere solo tra fattispecie, quando sia la legge a prevedere un reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro, non quando siano le particolari modalità di realizzazione in concreto del fatto tipico a determinare una occasionale convergenza di più norme, e, quindi, un concorso di reati. Sicchè -si è detto- in tanto è possibile parlare di una complessità eventuale in quanto sia la stessa legge a prevedere un reato come modalità solo eventuale di consumazione dell’altro.10
3. La novella del 2008 in tema di circostanze aggravanti dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose nella circolazione stradale.
Sulla scorta di queste considerazioni, preme, ora, affrontare da vicino la problematica sottoposta ad esame.
Orbene, come è noto, nell’ottica di un maggior rigore da assicurare nei confronti dei reati in tema di circolazione stradale, il <<decreto sicurezza>> del 200811, ha fortemente inasprito le pene per i delitti di omicidio colposo e lesioni colpose, prevedendo al secondo comma dell’art. 589 c.p. la pena della reclusione non più da due a cinque anni, bensì da due a sette anni, ma più corposamente ha inserito un terzo comma nella norma stabilendo che: “Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale con da:
1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni;
2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope”.
Nel corpo del terzo comma dell’art. 590 c.p., è stato invece, aggiunto un periodo secondo il cui tenore: “Nei casi di violazione delle norme sulla circolazione stradale, se il fatto è commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, ovvero da soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pena per le lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per le lesioni gravissime da una anno e sei mesi a quattro anni”.
V’era da attendersi che le pregnanti novità introdotte con il D.L. n. 92/2008, ponessero il quesito che ruota attorno al regime giuridico e al rapporto tra le fattispecie contravvenzionali di cui all’art. 186 e 187 c.d.s. e le nuove fattispecie aggravate di cui agli artt. 589 terzo comma, e 590 terzo comma, c.p.; più specificamente, se si configurasse in tali ipotesi un concorso di reati o un concorso apparente di nome, od anche se si fosse piuttosto dinanzi ad un reato complesso.
4. I rapporti tra le aggravanti introdotte e i reati contravvenzionali ex artt. 186 e 187 D. Lvo n.
285/1992.
Invero, la questione posta non è nuova nel panorama giurisprudenziale, sebbene affrontata con riferimento alla relazione tra il delitto colposo aggravato ex art. 589 secondo comma, c.p. e le violazioni di altre norme sulla circolazione stradale che non costituiscono, di per sé, necessariamente autonomi reati.
Ebbene, la Corte di legittimità, nell’esaminare la fattispecie dell’art. 589, secondo comma, c.p. (che già prevedeva un aumento di pena nel caso di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale), la qualificò come circostanza aggravante in senso proprio, e quindi, come tale valutabile nel quadro del giudizio di prevalenza o di equivalenza delle circostanze, negando che norma potesse configurare un reato <<eventualmente complesso>>, traendone la conclusione che tale fattispecie di omicidio colposo concorresse con l’illecito penale eventualmente contemplato da una delle norme in tema di circolazione stradale.12
Di contro, si è sostenuto autorevolmente in dottrina, che l’ipotesi di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale avrebbe dovuto confinarsi nel perimetro normativo dell’art. 84 c.p. già precedentemente alla introduzione del secondo comma dell’art. 589 c.p., atteso che l’art. 84 c.p. non si limita a disciplinare le ipotesi di reato <<necessariamente complesso>>, ma comprenderebbe anche i reati <<eventualmente complessi>>; ciò premesso, l’omicidio colposo consumato mediante la violazione delle norme di disciplina stradale darebbe vita proprio ad un reato eventualmente complesso, in quanto realizzabile anche senza la violazione di tali norme.
Tuttavia, oggi il problema si pone in maniera sensibilmente differente nella misura in cui le circostanze aggravanti introdotte con la novella del 2008 fanno precipuo riferimento non più a violazioni generiche del codice della strada, bensì a specifiche ipotesi di reati contravvenzionali, quelle giustappunto prevedute dagli artt. 186 e 187.
Ad ogni buon conto, in un recente e interessante asserto, la Cassazione non ha ritenuto di mutare indirizzo.
Ed, infatti, con la sentenza 28 gennaio 2010, n. 3559, la quarta sezione della Suprema Corte si è orientata per la configurabilità di “un concorso di reati, e non di un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia per sé luogo ad un illecito contravvenzionale”. Nella fattispecie, è stato ritenuto il concorso del delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazioni di norme sulla circolazione stradale con la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza.
Mette conto ripercorrere l’iter argomentativo del Giudice di legittimità che ha sconfessato, da un lato, l’ipotesi di applicazione dell’art. 15 c.p., e dall’altro, quella di cui all’art. 84 c.p. sebbene ritenuta ipotesi più suggestiva.
Sul primo versante, “sebbene l’art. 186 c.d.s. reciti che la contravvenzione è configurabile <<ove il fatto costituisca più grave reato>>, tale clausola non determina, per il principio di specialità, un assorbimento della guida in stato di ebbrezza nel delitto di omicidio colposo, ciò perchè tra le due disposizioni non si configura un concorso apparente di norme. Quest’ultimo si realizza quando una norma si pone come speciale rispetto a quella generale e cioè quando contiene tutti gli elementi costitutivi di quella generale e, altresì, un quid pluris”.
Non sussisterebbe, pertanto, un rapporto tra genere e specie tra l’art. 186 c.d.s. e l’art. 589 c.p. “essendo nettamente distinte le tipicità dei fatti ed avendo i reati oggetti giuridici diversi: l’incolumità pubblica la contravvenzione; la vita il delitto”.
Anche la tesi prospettata in ordine alla riconducibilità della ipotesi di specie nell’impianto dell’art. 84 c.p., è stata ritenuta infondata.
A tal proposito, premesso che la Corte costituzionale abbia già in passato chiarito che l’art. 84 c.p. pretenda che di un reato facciano parte, come elementi costitutivi o circostanze aggravanti, fatti costituenti di per sè autonomi “reati”13, osserva la Cassazione nella citata sentenza che “nell’art. 589 comma 2, c.p., invece, vengono in modo generico richiamate le norme sulla circolazione stradale, senza alcun distinguo tra mere regole prive di sanzione, illeciti amministrativi e contravvenzioni, con ciò mostrando che il legislatore non ha inteso costruire tale ipotesi aggravata come un caso di reato complesso, altrimenti avrebbe codificato la disposizione con richiami a specifiche violazioni contravvenzionali. Deve pertanto condividersi la consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, sebbene, risalente, che nega nel caso in questione l’applicabilità dell’art. 84 c.p., non verificandosi una totale perdita di autonomia dei reati contravvenzionali stradali ed una fusione con l’omicidio colposo aggravato (cfr. Sez. V, n. 2608 del 1979, Schiavone; Sez. IV, n. 1103 del 1971, Bacci; Sez. I, n. 1638 del 1971, Antonelli)”.
Peraltro -si aggiunge- “con specifico riferimento al rapporto tra l’art. 589 c.p. e l’art. 186 c. strad., va ricordato che perchè ricorrano i presupposti per l’applicazione dell’art. 84 c.p., è necessario che il reato assorbito abbia con quello in cui si fonde un legame causale con carattere di immediatezza (cfr. Sez. II, n. 10812 del 1995, Marinino)”; ciò che non avviene nel caso in cui il soggetto agente inizia “la consumazione della contravvenzione di guida in stato di ebbrezza ben prima della consumazione del delitto di omicidio, pertanto anche sotto tale profilo, in assenza di una immediata coincidenza causale tra le due violazioni, non può configurarsi l’ipotesi di cui all’art. 84 c.p.”.
Tale percorso motivazionale è da ritenersi evidentemente estensibile anche alla contravvenzione prevista dall’art. 187 c.d.s.
Tuttavia, non è mancata, in dottrina, la voce di chi non ha giudicato convincente la posizione espressa dalla Cassazione14.
In buona sostanza, si è arguito che, se l’ipotesi di un concorso di reati era giustificabile prima della nuova disciplina introdotta dal D. L. n. 92/2008, non lo è più adesso.
In altri termini, premesso che la stessa pronuncia n. 3559/2010 evidenzia che nell’art. 589 secondo comma, c.p., vengono in modo generico richiamate le norme sulla circolazione stradale con ciò mostrando che il legislatore non ha inteso costruire tale ipotesi aggravata come un caso di reato complesso, altrimenti avrebbe codificato la disposizione con richiami a specifiche violazioni contravvenzionali, ebbene proprio con la novella normativa il legislatore ha dimostrato di rovesciare la situazione in essere, con l’aggancio a specifiche ipotesi di contravvenzione; dunque, anche in omaggio alla giurisprudenza di legittimità precedente, se ne dovrebbe inferire la configurabilità del reato complesso in relazione alle fattispecie aggravate introdotte.
La medesima dottrina ha, infine, osservato che, nella misura in cui tali ultime fattispecie postulano che omicidio o lesioni da colpa siano posti in essere da soggetto che si trovi, proprio in quel momento, in stato di “grave” ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di stupefacenti, sarebbe privo di pregio l’argomento proposto in sentenza dalla Suprema Corte secondo cui verrebbe a mancare un’immediata coincidenza causale tra le due violazioni, requisito peraltro del tutto assente nel costrutto dell’art. 84 c.p.
5. Brevi considerazioni sul problema della continuazione nei reati colposi e nelle contravvenzioni.
In ragione della sopravvenuta estinzione del reato contravvenzionale dovuta alla prescrizione, la Corte di legittimità, nella sentenza n. 3559/2010, non ha affrontato il quesito postole in ordine alla richiesta di applicazione della continuazione tra il delitto di omicidio colposo e la contravvenzione di cui all’art. 186 c.d.s, tema peculiare che, per squisita esigenza di completezza, merita qualche sia pur breve cenno.
In linea generale e di principio, secondo la costante giurisprudenza e prevalente dottrina, non è configurabile la continuazione tra reati colposi o tra reati dolosi e colposi, in quanto è illogica l’unicità del disegno criminoso riferita a reati non voluti o contro l’intenzione.
Tuttavia, non distinguendo l’art. 81 c.p. tra delitti e contravvenzioni, la continuazione può essere ravvisata tra contravvenzioni che implichino una condotta dolosa, da intendersi come ideazione contemporanea di più azioni antigiuridiche programmate nelle loro linee essenziali. È ben vero che l’art. 42, ultimo comma, c.p., sancisce l’equivalenza nelle contravvenzioni tra il dolo e la colpa, essendo sufficiente anche solo quest’ultima per il perfezionamento del reato. Tuttavia, se nel caso concreto l’elemento psicologico dell’agente sia stato doloso, non è incompatibile con la natura contravvenzionale del reato ipotizzare, in presenza della unicità del disegno criminoso, la continuazione tra detto reato ed un delitto doloso. Occorre, però, che risulti accertato che l’elemento soggettivo che ha assistito la contravvenzione (pur astrattamente perfezionabile con la sola colpa) nel caso concreto sia stato il dolo e che sussista, sempre nel caso concreto, l’unicità del disegno criminoso con il delitto doloso.15
In altri termini, l’unicità del disegno criminoso non è esclusa dalla natura contravvenzionale di alcuni reati (sempre che siano posti in essere con dolo) e va desunta di regola da elementi presuntivi e indiziari, tenendo conto, tra l’altro, delle modalità della condotta, della sistematicità e delle abitudini programmate di vita, della tipologia dei reati, del bene protetto, dell’omogeneità, o non, delle violazioni, della causale, delle condizioni di tempo e di luogo, e non trascurando il valore non decisivo, ma comunque sintomatico, della brevità dell’intervallo cronologico, specie se fra alcuni fatti in esso compresi il vincolo della continuazione sia stato già definitivamente riconosciuto dal giudice della cognizione o da quello dell’esecuzione.16
In una fattispecie analoga a quella di cui alla pronuncia n. 3559/2010, la Suprema Corte ha rivelato che l’unicità del disegno criminoso tipica del reato continuato mal si concilia con i reati colposi, nei quali l’evento non è voluto dall’agente, così che la condotta, questa sì genericamente voluta, non può considerarsi in alcun modo finalizzata. L’unica eccezione si verifica allorquando l’agente abbia posto in essere il reato colposo agendo nonostante la previsione dell’evento: ipotesi nella quale, quindi, è contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 3 c.p., cd. colpa con previsione. (Da queste premesse, la Corte ha escluso che potesse ritenersi il vincolo della continuazione tra il reato di omicidio colposo, nella specie non aggravato dalla colpa con previsione, e quello di guida sotto l’influenza dell’alcool)17.
In dottrina, tale orientamento giurisprudenziale è stato autorevolmente condiviso (ROMANO, MANTOVANI, MARINUCCI-DOLCINI).
Tale indirizzo è stato, altresì, ribadito da Cass. Sez. IV, 31 gennaio 2007, n. 3579, Galluzzo.18
Giova evidenziare, inoltre, altra pronuncia afferente il regime sanzionatorio cui assoggettare, ai fini della continuazione, le ipotesi in cui la contravvenzione sia punita con sanzione più elevata rispetto a quanto si preveda per il delitto.
Si è rilevato, sul punto, che, “in tema di continuazione, l’individuazione della violazione più grave a fini di computo della pena deve essere condotta con riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore, e poichè nel vigente sistema penale la previsione dei reati quali delitti o contravvenzioni esprime la valutazione legislativa di maggiore o minore gravità dell’illecito, nel reato continuato i primi vanno sempre considerati più gravi delle seconde, anche nel caso che i valori della sanzione per il reato contravvenzionale siano equivalenti o più elevati rispetto a quelli concernenti l’ipotesi delittuosa”. (Fattispecie di concorso tra il reato di molestie, di cui all’art. 660 c.p. ed il delitto di ingiuria, di cui all’art. 594 c.p.).19
Quanto, infine, alla ipotesi di continuazione tra contravvenzioni, la giurisprudenza costantemente ritiene che “la continuazione può essere ravvisata tra contravvenzioni solo se l’elemento soggettivo ad esse comune sia il dolo e non la colpa, atteso che la richiesta unicità del disegno criminoso è di natura intellettiva, e consiste nella ideazione contemporanea di più azioni antigiuridiche programmate nelle loro linee essenziali”. (Nella fattispecie, relativa al concorso tra la guida in stato di ebbrezza e il rifiuto di consentire agli organi della Polizia stradale l’accertamento dello stato di alterazione, la Corte ha confermato la sentenza del Giudice di pace che aveva escluso l’ipotesi di continuazione definendo la guida in stato di ebbrezza causata da imprudenza e negligenza)20.
1 Cass., Sez. Un., 19 gennaio 1982, n. 420.
2 Cass., Sez. Un., 21 aprile 1995, n. 9568.
3 Cass., Sez. Un., 22 giugno 1995, n. 16; v. anche, Cass., Sez. Un., 19 aprile 2007, n. 16568.
4 Così, LATTANZI-LUPO, Codice Penale – Rassegna di giurisprudenza e dottrina, I, 2010, p. 617.
5 Cass., Sez. Un., 20 dicembre 2005, n. 47164.
6 Sugli argomenti dottrinali esposti, v., LATTANZI-LUPO, Codice Penale – Rassegna di giurisprudenza e dottrina, III, 2010, pp. 495 e ss.
7 Cass., 16 aprile 1984, Amendola.
8Cass., Sez. II, 8 ottobre 2003, n. 45645.
9V., LATTANZI-LUPO, Codice Penale – Rassegna di giurisprudenza e dottrina, III, 2010, p. 497.
10Cass., Sez. V, 11 marzo 2004, Franzolin.
11D. L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, nella L. 24 luglio 2008, n. 125.
12Cass., Sez. III, 5 luglio 1976, Ciani, in Rivista italiana di diritto e proceduta penale, 1978, p. 429, con nota di DE FRANCESCO, Profili sistematici dell’omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale.
13Corte Cost., 8 maggio 1974, n. 124.
14POTETTI, Relazioni fra le nuove aggravanti degli artt. 589 e 590 c.p. (D.L. n. 92 del 2008) e gli artt. 186 e 187 c. strad., in Cassazione Penale, n. 4/2011, pp. 1407, 1408.
15Cass., Sez. VI, 21 marzo 1997, P.M. in proc. Marini.
16Cass., Sez. I, 28 novembre 1997, n. 5521.
17Cass., Sez. IV, 4 maggio 2005, n. 16693, Zullato.
18 In Cassazione Penale, n. 4/2008, con interessante nota di MUSCATIELLO, La continuazione nei reati colposi.
19Cass., Sez. I, 27 maggio 2004, n. 26308, in Cassazione Penale, n. 2/2006, p. 521.
20Cass., Sez. IV, 19 gennaio 2005, n. 1285, Gentilini; conf.: Cass., Sez. III, 22 gennaio 1991, Borello; Cass., Sez. III, 30 maggio 1988, Caiazzo; Cass., Sez. III, 12 febbraio 1988, De Salvo; Cass., Sez. III, 15 aprile 1985, Donna Nebiolo. Analogamente, in dottrina, ANTOLISEI, ZAGREBELSKY.