di CESARE GESMUNDO
(Avvocato e ricercatore)
Aveva trovato nella legge quella certezza
che gli sfuggiva nella vita, e si
sentiva naturalmente portato a scambiare
la vita con la legge.
S. Satta
(Il giorno del giudizio)
La scommessa d’amore, per la legge (e il diritto), Salvatore Satta l’avrebbe persa. E con essa tutte le speranze di vita che il Maestro riversava, a buon ragione, sulle “certezze” della legge; come se quest’ultima fosse un punto fermo della propria vita.
Per quel che si dirà.
La riflessione dottrinaria e giurisprudenziale la si deve alle recenti ordinanze emesse dalla I sezione penale del Tribunale di S. Maria C.V. in due processi di criminalità organizzata.
Un “pasticciaccio brutto”, per dirla con un grande della letteratura, di norme che è venuto proprio bene al legislatore. Ci si intende riferirsi alla disciplina dei termini di durata della custodia cautelare (artt. 303, 304, 305 cpp), che una recente sentenza della Corte di cassazione (sez. V, sent. n. 30759, ud. 11.7.2012, dep. 26.7.2012, ric. Ali Sulaiman, che trova un precedente non massimato in sent. n. 9148 del 2003, ric. Reccia) ha nuovamente posto in discussione.
Si tratta della questione relativa al periodo “aggiuntivo” di sei mesi, utilizzabile per protrarre la custodia cautelare, quando si proceda per reati di particolare gravità (quelli di cui all’art. 407, comma II, lett. a cpp); periodo che può essere imputato alla fase precedente, se non completamente utilizzato in essa, ovvero può essere sottratto alla fase successiva (art. 303 comma primo, lett b),n.3, bis, cpp). A tal uopo, il codice di rito (art. 304, comma sesto, nel testo vigente), così si esprime :”La durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303 commi primo, secondo e terzo, senza tenere conto dell’ulteriore termine previsto dall’art 303 comma primo lett. b), num. 3 bis e i termini aumentati della metà previsti dall’art. 303, comma quarto, ovvero, se più favorevole, i due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza. A tal fine, la pena dell’ergastolo è equiparata alla pena massima temporanea.
Ma che vuol dire “senza tenere conto dell’ulteriore termine… ecc.”?
Ed è qui che pensieri e parole di Satta fanno pendant con l’incertezza della legge e, dunque, della vita dell’uomo.
Nella giurisprudenza di legittimità, le sentenze precedenti avevano sempre ritenuto che l’eventuale aumento (fino a sei mesi) dei termini di durata della custodia cautelare disposto, per la fase predibattimentale, non dovesse avere alcuna incidenza sulla durata massima della custodia medesima, ai sensi dell’art. 304, comma sesto, stesso codice, la quale durata, in nessun caso (dunque neanche con l’aggiunta dei sei mesi), potrebbe superare il doppio dei termini previsti in via ordinaria dai commi primo, secondo e terzo del citato articolo 303 (sez. VI, sent. n. 15879, ud. 24.2.2004, dep. 2.4.2004, ric. PM in proc. Setola e altri, preceduta da alcune sentenze non massimate e seguita da numerose conformi, fino a sez. VI, sent. n. 38671, ud. 7.10.2011, dep. 25.10.2011, ric. Amasiatu, per la quale l’applicazione del “meccanismo di recupero” sopra descritto, che, appunto, consente il prolungamento dei termini di fase, per mezzo dell’imputazione del periodo residuo a fasi diverse, non comporta l’aumento dei termini massimi di custodia fissati dall’art. 304, comma sesto, cod. proc. pen.).
Evidentemente la locuzione in questione (“senza tenere conto dell’ulteriore termine… ecc”) viene letta, nelle sentenze appena citate, nel senso: “non si deve tener conto, aggiungendolo (per stabilire quale debba essere la durata complessiva) dell’ulteriore termine” di sei mesi; quindi, se c’è il raddoppio, non può esservi l’aggiunta.
Ma l’inciso in questione può essere inteso anche nel senso :”senza tener conto (nell’operare il raddoppio) dell’ulteriore termine” di sei mesi; quindi, operato il raddoppio (senza tenere conto ecc.), poi si possono aggiungere i sei mesi (per i reati, si intende, ex art. 407 comma secondo, lett. a cpp).
A favore della prima tesi (raddoppio senza aggiunta) milita l’avverbio utilizzato dal legislatore al rigo precedente (“la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio ecc.”). A favore della seconda tesi la sentenza della quinta sezione porta una serie di argomenti.
Vediamoli.
Argomento logico, che tiene conto della ratio della disposizione. “L’allungamento” (fino a sei mesi) è stato introdotto per consentire una adeguata dilatazione del dibattimento di primo grado (quello più impegnativo e macchinoso, per la necessità di svolgere l’istruttoria). Poiché “il tempo supplementare” viene comunque scalato, imputandolo ad altra fase processuale (“a credito”, per così dire, o “a debito”), esso non si traduce in un immotivato aggravio di sofferenza detentiva per l’imputato. Sarebbe allora illogico che, proprio per il dibattimento di primo grado, tale credito (maturato nella fase precedente) non possa essere speso, ovvero tale indebitamento (a spese della fase successiva) non possa essere riconosciuto. Per queste ragioni, il raddoppio dei termini e “l’aggiunta” dei sei mesi non sono, né logicamente, né giuridicamente, incompatibili, in quanto rispondono alla medesima ratio. In altre parole, una volta introdotto tale meccanismo di flessibilità, sarebbe illogico non farne uso lì dove esso appare più necessario.
Argomento sistematico: il limite massimo di fase (art. 304 comma sesto) attiene ai periodi di sospensione, laddove il termine aggiuntivo scatta ope legis in considerazione della particolare gravità del reato da giudicare. Tale “periodo di allungamento”, inoltre, non attiene alla fase, ma ad essa può accedere eventualmente, secondo le necessità che, di volta in volta, si possono manifestare.
Argomento letterale: l’espressione utilizzata “senza tener conto” è del tutto equivalente a quella che compare nel comma settimo dell’art. 304 del codice di rito (“nel computo del termine di cui al comma sesto, salvo che per la durata complessiva della custodia cautelare, non si tiene conto dei periodi di sospensione di cui al comma primo lettera b…”). Ebbene, in tale ultimo caso, non possono esservi dubbi circa il significato della espressione: esso non si computa nel calcolo del termine in questione, che rimane esterno al relativo conteggio.
Argomento storico: la sentenza ricorda i lavori preparatori della novella del 2000/2001, dai quali, sostiene l’estensore, si evince con chiarezza la volontà del legislatore di mettere a disposizione del giudice del dibattimento un termine ulteriore per lo svolgimento del suo compito, impedendo, al contempo, la scarcerazione di persone imputate di reati connotati da particolare allarme sociale, “precisandosi che tale termine va sommato al termine di fase, pur se raddoppiato, anche se, a sua volta non è –ovviamente- suscettivo di raddoppio”. Dunque, secondo la quinta sezione, la stratificazione normativa (se ne accennava prima) ha determinato l’apparente contraddizione (tra “comunque” e “senza tenere conto”), essendo intervenuti, prima, l’art. 15 delle legge 8 agosto 1995 n. 332, poi, il D.L. 24 novembre 2000 n. 341, conv. nella legge 19 gennaio 2001 n. 4, che hanno, appunto, previsto il termine aggiuntivo di sei mesi per alcuni reati. Il che ha prodotto un “dato testuale in sé oggettivamente equivoco” (così la sentenza), che si presta a letture palesemente contrastanti. La sentenza 30759 del 2012, probabilmente, è destinata a rimanere sotto i riflettori, non solo perché appare consapevolmente “eretica”, ma anche perché viene a incidere su di una materia (la custodia cautelare) di grande rilievo, sconvolgendo certezze e calcoli (degli imputati e dei Difensori).
La strada verso le Sezioni unite, probabilmente, è stata aperta. Se alla Corte di legittimità si richiede di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” (art. 65 ord. giud.), dal legislatore si dovrebbe pretendere la chiarezza espressiva, di modo che le leggi possano essere interpretate secondo “il senso…fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse”, come prevede l’inapplicato (perché spesso inapplicabile) art. 12 delle disposizioni sulle legge in generale. Prima della nomofilachia, viene (dovrebbe venire) la logofilachia.
Cass., sez. V, 11 luglio 2012, n. 30759
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TERESI Alfredo – Presidente –
Dott. DUBOLINO Pietro – Consigliere –
Dott. FUMO Maurizio – Consigliere –
Dott. BRUNO Paolo Antonio – Consigliere –
Dott. LAPALORCIA Grazia – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto il 3.4.2012 da:
Avv. Mercurelli Massimo, difensore di A.S., nato a
(OMISSIS);
avverso l’ordinanza del Tribunale di Napoli, in funzione di giudice
di appello de liberiate del riesame, del 15 marzo 2012;
Sentita la relazione del Consigliere Dr. Paolo Antonio BRUNO;
Sentite le conclusioni del P.G. in sede, in persona del Sostituto Dr.
D’Angelo Giovanni, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata.
Udito il dif. Mercurelli Massimo Giuseppe.
FATTO OSSERVA 1. – Con ordinanza del 7 novembre 2011 il Tribunale di Napoli rigettava la richiesta di declaratoria di inefficacia per decorrenza dei termini relativi alla fase dibattimentale della custodia cautelare nei confronti di A.S., imputato del reato di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti.Pronunciando sul gravame proposto in favore dello stesso imputato, il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice di appello de liberiate, rigettava l’appello, confermando il provvedimento impugnato.Nel ritenere ininfluente la questione agitata dalla parte in ordine al contestato computo di un periodo di sospensione, il Tribunale considerava, invece, decisivo il rilievo che il termine di fase non fosse, comunque, decorso alla data del provvedimento impugnato, in quanto all’ordinario termine di anni tre – come raddoppiato in ragione della complessità del procedimento – andava sommato l’ulteriore periodo di mesi sei previsto dall’art. 303, comma 1, lett. b) n. 3 bis per i reati richiamati dall’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), tra i quali rientrava certamente quello ascritto all’ A..Avverso la pronuncia anzidetta il difensore ha proposto ricorso per cassazione, affidato ai motivi di censura di seguito indicati.All’udienza del 26 giugno 2012, la Corte – tenuto conto dell’importanza della questione da decidere – differiva la deliberazione all’odierna udienza, nella quale la causa era discussa e decisa.2. – Con unico motivo d’impugnazione, parte ricorrente eccepisce la nullità dell’ordinanza in questione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), in relazione agli artt. 303 e 304 c.p.p..Contesta, al riguardo, l’interpretazione del giudice a quo sul riflesso, avvalorato da precedenti giurisprudenziali di legittimità, che il doppio del termine custodiale costituisca limite invalicabile, di talchè nel relativo computo non avrebbe considerato l’ulteriore periodo di mesi sei. Pertanto, alla data del provvedimento impugnato era, ormai, decorso il termine di fase e, conseguentemente, il giudice a quo avrebbe dichiarare l’inefficacia della misura cautelare.3. – Una sintetica puntualizzazione dei termini della vicenda processuale costituisce necessaria premessa all’esame della questione sollevata da parte ricorrente.3.1 – Orbene, nei confronti di S., imputato del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 legge stupefacenti, era disposto il giudizio con decreto del 17 ottobre 2008. Il termine di fase per il dibattimento di primo grado, pari ad anni uno e mesi sei, veniva raddoppiato in ragione della sospensione dei termini disposta per la complessità del dibattimento.Si trattava, allora, di stabilire se il termine, così aumentato, fosse decorso alla data del 17 ottobre 2011, come opina la difesa, ovvero se ad esso andasse sommato l’ulteriore periodo di mesi sei previsto dall’art. 303, comma 1, lett. b) n. 3 bis per una particolare tipologia di reati, tra i quali rientrava certamente quello per il quale l’ A. era stato tratto a giudizio. La soluzione negativa sostenuta dal giudice a quo è oggi avversata dalla difesa.Resta da dire che il riflesso della questione, sul versante dell’efficacia della misura cautelare, è decisivo. E’ vero, infatti, che, con sentenza del 10 novembre 2011 l’imputato è stato riconosciuto colpevole e condannato dal Tribunale di Napoli alla pena di anni ventitrè di reclusione; ma è pur vero che, occorrendo giudicare ora per allora, si trattava di stabilire se, alla data del provvedimento impugnato innanzi al giudice del riesame (7.11.2011, di poco precedente la sentenza di condanna), il termine massimo di fase fosse o meno decorso.3.2 – Così focalizzata la vicenda processuale, il quesito interpretativo che si pone è se, in tema di durata massima della custodia cautelare, ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 6, nel computo del doppio del termine di fase della stessa custodia si debba o meno tener conto dell’aumento fino a sei mesi previsto dall’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 3 bis), per i procedimenti riguardanti delitti di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a).Come è noto, l’aumento in questione è automatico, proprio in quanto previsto per procedimenti relativi a determinati reati, ed opera, quindi, ex lege senza necessità di apposito provvedimento del giudice (cfr. Cass. sez. 1, 13.1.2005, n. 3043, rv 230871) 3.3 – Al riguardo, non ignora il Collegio che la quaestio iuris così definita è stata, in passato, affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità e risolta in termini negativi. Ed invero, si è sostenuto che il termine di durata massima della custodia cautelare di cui all’art. 304 c.p.p., comma 6, non può essere aumentato fino a sei mesi ai sensi dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 3 bis), poichè, per un verso, l’avverbio “comunque” utilizzato nella prima disposizione sottolinea il carattere di limite insuperabile del “doppio” termine di custodia e, per altro verso, la collocazione dell’inciso “senza tenere conto dell’ulteriore aumento previsto dall’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b) n. 3 bis” subito dopo l’enunciazione della “regola” in tema di durata massima della custodia, esclude l’adozione di ogni criterio di computo che riduca la portata della “regola” stessa (cfr. Cass. sez. 1, 11.4.2007, n. 34545, rv. 237680; nello stesso senso cfr. id. sez, 6, 24.2.2004, n. 15879, rv. 228816, secondo cui l’eventuale aumento fino a sei mesi dei termini di durata della custodia cautelare disposto, per la fase predibattimentale relativa a specifici delitti, a norma dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 3 bis, non ha alcuna incidenza sulla durata massima della custodia medesima ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 6, la quale in nessun caso può superare il doppio dei termini previsti in via ordinaria dal citato art. 303 c.p.p., commi 1, 2 e 3.3.4 – Reputa il Collegio che l’interpretazione anzidetta non possa essere condivisa, in quanto assai poco aderente al testo della norma e, soprattutto, alla sua ratio ispiratrice.Orbene, muovendo in primis dal dato testuale, la disposizione di cui all’art. 304 c.p.p., comma 6, stabilisce che la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303 c.p.p., commi 1, 2 e 3 senza tenere conto dell’ulteriore termine previsti dall’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 3 bis e i termini aumentati della metà previsti dall’art. 303 c.p.p., comma 4.Gli elementi-chiave nella struttura letterale della norma sono certamente l’avverbio comunque e la locuzione senza tenere conto dell’ulteriore termine. Si tratta, in tutta evidenza, di elementi lessicali in contraddizione tra loro, posto che l’avverbio sembra introdurre una previsione perentoria di insuperabilità, dunque la regola di cui dicono le sentenze sopra richiamate; la locuzione sembrerebbe, invece, alludere ad una deroga. L’apparente aporia, frutto di discutibile tecnica di formulazione, è in realtà dovuta alla stratificazione normativa per effetto di successive modifiche dell’originario testo della norma, apportate, dapprima, dalla L. 8 agosto 1995, n. 332, art. 15 e poi dalla riforma introdotta dal D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4, che ha appunto previsto l’ulteriore termine di mesi sei per determinate ipotesi di reato.3.5 – Ora, una lettura di primo acchito della norma così formulata porterebbe a ritenere che, fermo restando – in linea di principio – il limite del doppio del termine di fase, dal relativo computo debba escludersi l’eventuale, ulteriore, periodo di sei mesi, siccome elemento estraneo alla relativa determinazione, riconnettendo così alla preposizione senza il suo abituale significato privativo.Nondimeno, il dato testuale è in sè oggettivamente equivoco, verosimilmente a cagione dell’anzidetta successione normativa, prestandosi, invero, anche alla lettura opposta, che, nel fare leva sull’avverbio comunque e sul significato ad esso comunemente sotteso, attribuisce alla locuzione senza tener conto una valenza semantica inglobante, ossia nel senso che il computo del limite massimo di durata debba considerare anche l’ulteriore periodo di sospensione.3.6. – L’equivocità del dato letterale impone il richiamo ad altri parametri ermeneutici, segnatamente all’interpretazione logico- sistematica in rapporto alla ratto della disposizione in esame.Muovendo, in primo luogo, dalla logica ispiratrice non è revocabile in dubbio che la finalità perseguita dal legislatore sia quella di consentire al giudice del dibattimento di primo grado – che, notoriamente, costituisce snodo cruciale del processo penale, per tutte le incombenze istruttorie ad esso inerenti e le inevitabili lungaggini – un maggior tempo per la trattazione, evitando che, in relazione a più gravi reati, venga a cessare l’efficacia della misura custodiale per effetto della maturazione dell’ordinario termine massimo di fase. Per conseguire siffatto risultato, è stato appunto introdotta la previsione di un termine aggiuntivo fino a sei mesi.Venendo, ora, al canone sistematico, la norma in questione non può che essere letta in stretta connessione con la specifica disposizione relativa all’aumento, che, significativamente, introduce un particolare metodo di utilizzo del plus di durata. L’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. 3 bis stabilisce, infatti, che il termine ulteriore (fino a sei mesi) è imputato a quello della fase precedente, ove non completamente utilizzato, ovvero ai termini di cui alla lett. d) per la parte eventualmente residua. In quest’ultimo caso, i termini di cui alla lett. d) sono proporzionalmente ridotti.La logica di tale previsione non può essere colta se non alla stregua del rinvio alla norma dell’art. 303 c.p.p., comma 4 – non a caso richiamata dall’art. 304 c.p.p., comma 6 – sul limite massimo complessivo della durata custodiale, secondo le scansioni temporali dettate dalla stessa disposizione in rapporto alla pena edittale prevista per il reato per cui si procede. La norma richiamata, dettando limiti invalicabili di durata complessiva, è disposizione davvero di chiusura del macchinoso sistema di computo dei termini di custodia cautelare. Orbene, il richiamo a tale ultima disposizione non può significare altro che, fermo restando il limite massimo, complessivo (per tutte le fasi del processo), di durata della custodia cautelare, nell’ambito della relativa decorrenza, il giudice del dibattimento può disporre di un ulteriore termine di mesi sei in presenza di determinati reati di particolare gravità, che, ordinariamente, comportano maggiore complessità di accertamento istruttorio. E poichè il termine massimo complessivo (ex art. 303 c.p.p., comma 4), non può essere superato, è stato elaborato un particolare meccanismo di applicazione di quel termine aggiuntivo, caratterizzato da speciale flessibilità, nel senso dell’utilizzo dell’eventuale frazione residua del termine della fase precedente, ove non interamente utilizzato, ovvero dell’imputazione del tempo necessario ai termini di fase di cui alla lettera d), ossia al giudizio di cassazione, per intero o per la frazione necessaria, con conseguente contrazione proporzionale della relativa durata. Il che significa che spalmando il termine aggiuntivo (sino a sei mesi) su fasi diverse, utilizzandone l’eventuale eccedenza ovvero imputandone l’intero o quanto necessario al termine di una fase successiva, il giudice del dibattimento può disporre di un ulteriore periodo di sei mesi (che, in caso di utilizzo, da virtuale diventa concreto), senza che cessi la custodia cautelare di fase, secondo l’ordinaria previsione.Il tutto, però, nel rigoroso rispetto del termine complessivo dell’art. 303 c.p.p., comma 4, che rappresenta il limite invalicabile.3.6 – Se cosè è, la contraddizione sul piano lessicale – dovuta per quanto si è detto a difetto di coordinamento nella successione normativa – si spiega agevolmente considerando:a) il limite massimo di fase è previsto dall’art. 304 c.p.p., comma 6, in riferimento ai periodi di sospensione, ove invece il termine fino a sei mesi non riguarda affatto un caso di sospensione, costituendo mera aggiunta, ope legis, in considerazione della particolare gravità del reato da giudicare;b) il termine in questione non attiene specificamente alla fase, in quanto è ad essa riferibile solo in via eventuale e meramente virtuale, dovendo di fatto imputarsi, secondo il particolare metodo di utilizzo stabilito dal legislatore, o alla fase precedente (attingendo il periodo o la frazione di periodo necessaria ove il relativo termine di quella fase non sia stato interamente utilizzato) ovvero alla fase del giudizio di cassazione, con proporzionale riduzione del termini relativi.Ed non par dubbio che, nel computo del termine di fase del dibattimento, non si debba tener conto dell’ulteriore termine di sei mesi, che va dunque ad esso sommato. Sarebbe, infatti, illogico assumere che il giudice del dibattimento possa dilatare i tempi di trattazione, senza tema di scarcerazione dell’imputato, e poi non considerare l’ulteriore termine di cui si sia concretamente avvalso, in aggiunta al doppio del termine di fase positivamente previsto, sul rilievo che lo scopo della perentorietà della norma (racchiusa dall’avverbio comunque) sarebbe solo quello di sterilizzare (secondo i precedenti giurisprudenziali richiamati) l’ulteriore aumento di custodia previsto dall’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b) n. 3 bis, ai fini del computo del termine massimo di fase di cui all’art. 304 c.p.p., comma 6.3.7 – Sul piano sistematico non mancano, poi, significative conferme della fondatezza della lettura qui sostenuta.La norma di cui al comma 7 dello stesso art. 304 c.p.p., che, come da rubrica, riguardante “la sospensione dei termini di durata della custodia cautelare), precisa che nel computo del termine di cui al comma 6, salvo che per il limite della durata complessiva della custodia cautelare, non si tiene conto dei periodi di sospensione di cui al comma 1, lett. b) (ndr. Il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato a causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati). La formulazione, stavolta perspicua, della norma non può, certo, far dubitare del suo reale significato, fatto palese dalle stesse parole usate, ossia nel senso che – avuto riguardo alla particolare ragione del rinvio o della sospensione – non si deve tener conto del relativo periodo temporale nel computo del termine in questione, che, dunque, deve restare estraneo al relativo conteggio. Si tratta, in tutta evidenza, di formula linguistica (non si tiene conto) che esprime, in termini diretti ed espliciti – lo stesso significato racchiuso -in termini impliciti ed involuti – dalla locuzione senza tener conto.Ed ancora, sempre sul piano testuale, non è senza significato che la norma di chiusura di cui all’art. 303 c.p.p., comma 4, nella perentoria determinazione dei termini massimi complessivi, non usi formule equivoche di sorta e, per esprimere il significato contrario a quello qui sostenuto, ossia dell’inglobamento, usi la diversa formulazione considerate anche le proroghe previste dall’art. 305 c.p.p..Da ultimo, in chiave di definitiva conferma della plausibilità e fondatezza della lettura esegetica qui sostenuta può farsi richiamo ai lavori preparatori della novella (resoconto della seduta parlamentare-Camera dei Deputati del 14.12.2000), da cui emerge chiaro l’intendimento del legislatore, attraverso l’introduzione dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. 3 bis, di offrire al giudice del dibattimento un termine aggiuntivo di trattazione, per impedire la scarcerazione di persone imputate di reati di particolare allarme sociale, precisandosi che detto termine va sommato al termine di fase, pur se raddoppiato, anche se, a sua volta, non è ovviamente suscettivo di raddoppio.E’ di tutta evidenza che tale aggiunta non comporta, in realtà, un maggiore aggravio per la complessiva custodia cautelare, in quanto l’eventuale plus di custodia durante la fase del dibattimento di primo grado sarà compensato o da una minore durata nella fase precedente (indagini preliminari e udienza preliminare) ovvero da una minor durata in pendenza del giudizio di cassazione.3.8. – Nella stessa linea ermeneutica, qui sostenuta, si è posta anche una sentenza della 2 Sezione di questa Corte (30.5.2002, n. 9148/2003, ric. Reccia, non massimata, secondo cui con l’espressione “senza tener conto dell’ulteriore termine previsto dall’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 3 bis va letta come disposizione confermatva della regola in base alla quale l’aumento, verificatosi in concreto, a seguito dell’utilizzo del periodo “recuperato” da altre fasi, non incide nel calcolo da effettuarsi ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 6.4. – Per quanto precede, può allora affermarsi il principio che, in tema di durata massima della custodia cautelare, ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 6, nel computo del doppio del termine di fase della stessa custodia non si deve tener conto dell’aumento fino a sei mesi previsto dall’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 3 bis), per i procedimenti riguardanti delitti di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), alla stregua dell’interpretazione sistematica della norma e della sua ratio ispiratrice.5. – Per quanto precede, il ricorso deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni espresse in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si comunichi al direttore dell’istituto penitenziario competente ex art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 luglio 2012.Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012