Fatto, verità e ragionevoli dubbi*
di
Cesare Gesmundo
(avvocato e ricercatore)
Qualcuno ha scritto in ordine al senso dell’essere giudice:
‘…Convincersi e convincere.
Convincersi che un fatto è accaduto, che è accaduto in un certo modo, che è stato commesso da una
persona e non da un’altra, che ha provocato proprio quelle conseguenze. Convincere che ciò che
hai compreso è vero, che puoi argomentarne le ragioni, che puoi giustificare razionalmente gli
risultati di ciò che resta un tuo percorso interiore….’
Sommario: Considerazioni introduttive; 1. La conoscenza di una “fatto” quale espressione del “linguaggio” degli elementi prova; 2. La giustificazione “interna” ed “esterna” di una sentenza; 3. Quando il “caso” Winship si trasforma nella regola di giudizio dell’oltre ragionevole dubbio; 4. Ragionevole dubbio e mass media: l’idea di una norma possibile; 5. Accertamento del fatto e diritti della difesa: due “casi” dal Tribunale di S. Maria C.V.
La sentenza della Suprema Corte, VI sezione penale, nr. 1514 del 11.1.2013 (confermata da Cass., VI, 21.2.2013 n. 8705;Cass., II, 19.3.2013, n.12792), rel. Citterio, rappresenta, senza alcun dubbio, una pregevole interpretazione della regola dell’oltre ragionevole dubbio. Gli argomenti esposti in sentenza partono da una serie di considerazioni teoriche per addivenire ad un risultato pratico che s’innesta nella quotidianità giudiziaria. Dal Giudice di pace fino alla Suprema Corte di cassazione, i protagonisti del processo penale si misurano (e si confrontano) con questioni come: “la conoscenza e ricostruzione giudiziale di un fatto che è avvenuto nel passato”; “la valutazione del compendio probatorio”; “motivazione della sentenza”; “l’oltre ragionevole dubbio”.
La sentenza spiega i rapporti intercorrenti tra la “giustificazione” della sentenza “assolutoria” di primo grado ed la sentenza di “condanna” di II grado, quando medesimo è il “compendio probatorio”. La Suprema Corte, “autorevolmente”, nel caso di specie, prende di mira una sentenza delle Corte di appello di che non si “confrontava”, nella sua parte giustificativa, con le “ragioni” della sentenza di I grado che aveva assolto l’imputato.
Richiamandosi al principio di “obbligo rafforzato”, che si aggiunge agli obblighi in seno all’art. 606, comma 1, lett. E) che gravano sul giudice di appello, ed al principio codificato dell’oltre ragionevole dubbio, la Suprema Corte “annulla senza rinvio” la sentenza gravata, con argomenti davvero convincenti.
Sul punto, così, autorevolmente, la VI sezione penale: secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte suprema, la motivazione della sentenza d’appello che riformi la sentenza di primo grado, specialmente nel caso in cui affermi per la prima volta una responsabilità negata dal Giudice precedente, si caratterizza per un obbligo peculiare, che si aggiunge a quello generale della non manifesta illogicità e non contraddittorietà, evincibile dalla lettera E) dell’art. 606.1 c.p.p. (si è in proposito parlato anche di “obbligo rafforzato”: Sez.5, sent. 35762/2008).
Nel caso di riforma radicale della precedente decisione, infatti, il Giudice d’appello deve anche confrontarsi in modo specifico e completo con le argomentazioni contenute nella prima sentenza (per tutte, Sez.6, sent. 22120/2012): non è pertanto sufficiente che la motivazione d’appello sia intrinsecamente esistente, non manifestamente illogica e non contraddittoria, supportando in tale usualmente sufficiente modo un apprezzamento di merito proprio del grado.
Il discorso della Corte, poi, verte sulla regola dell’oltre ragionevole dubbio, così posta: tale principio rileva, in particolare, nel caso di decisione di prima condanna in grado di appello.
In questa evenienza, infatti, la ragione dell’inadeguatezza strutturale di una decisione d’appello che, pur in astratto correttamente motivata se in sé considerata, non dimostri di essersi anche confrontata con le (evidentemente) diverse ragioni della sentenza riformata, risulta dalla documentata non applicazione della regola di giudizio secondo la quale l’affermazione di responsabilità è possibile solo quando la colpevolezza risulta “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533.1 c.p.p.). Ed invero, come già precisato da due sentenze di questa Sezione (Sez. 6, sent. 40159/2011 e 4996/2011), a fronte del medesimo “compendio probatorio” la motivazione che si limiti a dare una lettura alternativa, ma non risulti “sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza”, viola quella regola di giudizio.
La Corte, dunque, condivide le argomentazioni poste dalle sentenze del 2011, n. 40159 e n. 4996, della medesima sezione. Ed, in particolar modo, rilevano i principi espressi dalla sentenza n. 40159 con la quale Corte di cassazione ha annullato la sentenza di riforma basata su “mere valutazioni alternative, corroborate per di più da elementi sostanzialmente congetturali […], inidonee, come tali, a cancellare tutti i dubbi sulla buona fede dell’imputato, quali ragionevolmente discendenti” da una serie di elementi evidenziati in prime cure. Nei medesimi termini, Sez. VI, 10 novembre 2011, n. 931, in cui la Corte di cassazione ha annullato la sentenza d’appello che aveva riformato la sentenza di assoluzione sulla base di una diversa selezione e valutazione di dichiarazioni provenienti da collaboratori di giustizia, senza farsi carico di una serie di passaggi delle dichiarazioni, già valorizzati dal primo giudice come idonei a porre in dubbio il concorso dell’imputato nel reato, “in relazione in particolare alla fase ideativo-deliberativa”0.
1. Il discorso sulla conoscenza di un fatto che è avvenuto nel passato e la sua ricostruzione giudiziale si avviluppa di tematiche processuali e fenomeniche di ampio respiro, intrattabili in questa sede.
La complessa interazione tra verità processuale, ricostruzione del fatto e linguaggio egli elementi di prova fa pendant con una celebre pubblicazione di Mireille Delmas-Marty.
La nota giurista francese ci ha segnalato: «Un celebre trattato cinese che risale alla fine della dinastia dei Ming (XVII secolo) descrive l’itinerario del buon giudizio penale. Senza fissare né principi né regole la Zheyu Zhiyan orienta il cammino del giudice indicandogli gli atteggiamenti, le posizioni da adottare e quelli che, al contrario, deve bandire. (…) E ciò senza dimenticare di ‘coltivare il dubbio’, perché ‘l’esercizio del dubbio’ è ciò che fonda ‘l’etica del giudice’. (…)».
Fin qui la bellissima citazione del trattato cinese.
Conclude la Delmas-Marty con una brillante sintesi: «in effetti, se l’esercizio del dubbio fonda l’etica del giudice penale, è perché il riferimento alla verità, ed alle incertezze che inevitabilmente l’accompagnano, resta al centro della giustizia penale»1.
E’ nella natura delle cose, dunque, che anche il processo penale può soltanto aspirare ad una verità che coincida con il reale accadimento dei fatti. Il processo penale si accontenta soltanto della “verità processuale” che, come è stato autorevolmente affermato, non può essere la “verità assoluta”2.
Generalmente il concetto di verità processuale è posto in contrapposizione con quello di verità storica, che indica i fatti così come, puramente e semplicemente, sono accaduti3. La verità storica è, dunque, l’utopia del processo penale ed è grandezza, ontologicamente, diversa e separata rispetto all’accertamento processuale che, come detto, aspira alla verità processuale. Il fatto storico non può rivivere e deve essere ricostruito nel processo attraverso le prove che rappresentano la verità processuale: il risultato probatorio.
La verità risultante dal processo penale è attuata mediante lo strumento del contraddittorio nella formazione della prova che, al contempo, costituisce parametro sostanziale del diritto di difesa ed essenza ontologica per l’accertamento dei fatti4, quindi della verità processuale. In dottrina, negli ultimi anni, è apparsa anche una definizione di verità convenzionale che, in buona sostanza, si affianca alla verità processuale. E’ l’ipotesi in cui, in deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova, accusa e difesa si accordano per la lettura, e dunque per l’acquisizione, di atti investigativi facenti parte delle indagini; ma, a ben vedere, quale ultimo baluardo del fine cognitivo del processo, resta il potere di controllo del giudice, che può ordinare di assumere la fonte di prova in contraddittorio5.
Epperò, nel rito penale la verità convenzionale è accettabile sol se si avvicina a quella processuale; e di tale tendenziale coincidenza è garante il giudice terzo ed imparziale6.
2. La norma epistemologica contenuta nell’art. 187 c.p.p., oggetto della prova sono i fatti: i “fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza”, i “fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali” e infine, quando vi sia costituzione di parte civile, i fatti “inerenti alla responsabilità civile derivante da reato”.
Ragionamento probatorio del giudice, pertanto, è quello che sostiene un giudizio sui fatti, quello che giustifica una decisione sui fatti.
Il giudizio di fatto che qui interessa, quindi, è quello in cui si pone il problema della veridicità dell’affermazione di colpevolezza dell’imputato, postulata dal pubblico ministero con la formulazione dell’imputazione7.
Va subito chiarito che noi parliamo della verità come rapporto tra un enunciato descrittivo e i fatti. Discutiamo, quindi, se corrisponde ai fatti l’affermazione del pubblico ministero circa la colpevolezza dell’imputato in ordine a un fatto costituente reato.
L’accertamento del fatto e della sua riferibilità all’imputato attiene al giudizio di fatto; l’accertamento della qualificabilità del fatto come reato attiene al giudizio di diritto.
L’art.192, comma 1, c.p.p., prevede che il giudice “valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”. Aggiunge, poi, che “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi precisi e concordanti”; e che le dichiarazioni rese da persona imputata dello stesso reato ovvero di reato connesso o collegato “sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.
D’altro canto, l’art. 125 c.p.p. prevede che le sentenze, le ordinanze e talora i decreti siano motivati a pena di nullità; e l’art. 546 lettera e) c.p.p. prescrive come requisito della sentenza “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”. Analogamente l’art. 292 c.p.p. richiede, a pena di nullità, che l’ordinanza applicativa di una misura cautelare contenga l’esposizione “degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza”, nonché “l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa”.
Com’è evidente, queste norme offrono indicazioni alquanto dettagliate circa l’estensione e la struttura logica della motivazione che il giudice deve esibire a giustificazione del giudizio sul fatto.
Indicazioni ulteriori, circa l’oggetto della motivazione in fatto, sono poi desumibili dalle norme che definiscono l’ambito della cognizione del giudice, individuando le questioni sulle quali egli deve pronunciarsi d’ufficio o solo su richiesta delle parti.
Due sono le prospettive in cui può porsi un problema di completezza della motivazione.
In quanto discorso giustificativo, la motivazione deve essere riferibile all’intero contenuto della decisione e, quindi, ai punti decisivi della controversia, così come individuati dalla legge o dalle richieste delle parti. In questo senso si pone un’esigenza di completezza della motivazione con riferimento al suo oggetto, che è individuato dall’ambito delle questioni effettivamente decise e di quelle che il giudice avrebbe dovuto, comunque, decidere. Ed è evidente che non potrebbe considerarsi motivato un provvedimento che non risultasse giustificato in tutti i suoi aspetti significativi; sicché, indipendentemente da specifiche previsioni della legge ordinaria, si potrebbe prospettare in questo caso una violazione dell’art. 111 comma 1 Cost. (“Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”), denunciabile a norma dell’art. 111 comma 2 (“Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”).
Inoltre, la struttura logica della motivazione non pone problemi di completezza bensì di correttezza del discorso giustificativo della decisione; ed è certamente uno dei temi di studio più interessanti, sebbene sia tema di grandissima complessità, perché coinvolge anche problemi filosofici e politici, oltre che giuridici.
La concezione classica della giurisdizione, e quindi della motivazione, applica lo schema del sillogismo sia nel giudizio di diritto sia nel giudizio di fatto.
Esigendo che il giudice dia conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, l’art. 192, comma 1, c.p.p. propone un modello normativo di motivazione in fatto, il quale richiede che il passaggio dal fatto probatorio (fonte e contenuto della prova) al fatto da provare (imputazione, etc…) venga giustificato rendendo esplicito il criterio di valutazione che si esprime nella massima di esperienza (regola di inferenza) adottata.
Secondo lo schema sillogistico, la massima di esperienza funge da premessa maggiore (“non ci può essere omicidio senza ordine del capo mafia”); il fatto noto da premessa minore (“Tizio è il capo mafia di Canicattì”); il risultato probatorio da conclusione necessaria (“l’omicidio commesso a Canicattì è stato ordinato da Tizio”).
Si riteneva un tempo che questo ragionamento sia stringente, porti cioè a conclusioni necessarie; ma quest’assunto è oggi smentito dagli studi di logica e di filosofia della conoscenza,perché è indiscusso che le sole argomentazioni idonee a offrire conclusioni necessarie sono quelle tautologiche, cioè quelle che non aggiungono nessuna conoscenza nuova alla conoscenza già espressa nelle premesse.
Dal punto di vista della struttura del ragionamento probatorio, che qui maggiormente interessa, peraltro, il modello sillogistico era inadeguato anche perché non teneva conto dell’esigenza di estendere la giustificazione alle premesse che il giudice esibisce a fondamento della propria
decisione. Seguendo l’insegnamento di un importante studioso polacco, purtroppo prematuramente scomparso, Jerzy Wroblewsky, oggi si distingue, invece, tra la giustificazione interna e la giustificazione esterna8.
Quando un giudice applica una massima di esperienza (per esempio la massima “non può essere commesso un omicidio senza ordine del capo mafia”, che funge da premessa maggiore della conclusione probatoria “Tizio, essendo capomafia, ha ordinato l’omicidio di Caio”), non deve porsi soltanto un’esigenza di giustificazione della conclusione, ma deve porsi anche un’esigenza di giustificazione della premessa. Il giudice deve, cioè, chiarire cosa giustifica la massima che esibisce come premessa maggiore del suo ragionamento. Sicché l’argomento del giudice si scinde in due parti. Giustificazione interna è quella che applica le premesse, secondo criteri di congruenza, coerenza e logicità. Tuttavia si manifesta talora anche un’esigenza di giustificazione esterna, l’esigenza di giustificare le premesse. Se noi facciamo applicazione nel giudizio di fatto di una legge scientifica, qual’è ad esempio il principio di gravità, che è universalmente riconosciuta e che fa parte delle nostre conoscenze incontestate, non c’è necessità di una giustificazione esterna. Ma se la regola che noi applichiamo è una regola che non ha il conforto della scienza, qual’è la regola per cui “non si può commettere un omicidio senza l’ordine del capo mafia”, il giudice dovrà giustificarla questa regola. E difatti in alcune sentenze, che di questa regola hanno fatto applicazione nei grossi processi di mafia, se ne è esibita una giustificazione, desunta dal tipo di organizzazione di Cosa Nostra e da alcuni comportamenti ricorrenti in tal genere di organizzazione.
Si può dire, allora, che la giustificazione esterna serve a fondare le premesse in cui sia articola la giustificazione interna.
Peraltro la struttura logica della giustificazione interna è profondamente diversa da quella della giustificazione esterna, perché diversi sono i tipi di argomento che adoperiamo nell’una e nell’altra giustificazione.
Per brevità possiamo dire che sono tre le strutture argomentative impiegate dal giudice del merito: a) l’induzione che, note esperienze particolari ipotizzate generali perché ricorrenti, consente di desumerne massime di esperienza o criteri di valutazione (è questo l’argomento che produce conoscenze generali effettivamente nuove; le generalizzazioni ottenute vengono considerate “leggi scientifiche” quando risultino coerenti con le teorie comunemente accettate); b) la deduzione che, nota la causa, consente di prevederne l’effetto (si tratta di un tipo di argomento che viene utilizzato per affermare l’esistenza di un fatto o di una situazione in virtù di un fatto o di una situazione che l’ha preceduto; quando la massima di esperienza garante dell’argomentazione corrisponde a una legge scientifica, la conclusione può essere affermata in termini di probabilità tanto elevata da poter essere assunta come certa); c) l’abduzione che, noto l’effetto, consente di ricostruirne la causa (si tratta di un tipo di argomento che, anche quando faccia applicazione di leggi scientifiche, consente conclusioni soltanto in termini di possibilità; le leggi scientifiche, infatti, consentono, di regola, di affermare che, “dato l’evento x, seguirà l’evento y”, ma raramente consentono di affermare che l’unica causa possibile dell’evento y è sempre e soltanto l’evento x)9.
L’argomentazione induttiva fonda la massima di esperienza (giustificazione esterna), che viene applicata (giustificazione interna) con un’argomentazione deduttiva o abduttiva.
In primo luogo si formula abduttivamente un’ipotesi di ricostruzione del fatto. Poi, per verificare se quest’ipotesi ricostruttiva è attendibile, si passa a un ragionamento di tipo deduttivo. Si traggono deduttivamente tutte le conseguenze necessarie dell’ipotesi abduttivamente formulata e si verifica se sono compatibili con fatti certi. Sono queste le prove; prove stringenti se la deduzione di cui consistono è garantita da una legge scientifica. Se l’argomento deduttivo è garantito solo da massime di esperienza, lo schema argomentativo si arricchisce ulteriormente, perché è necessario ricorrere anche alla giustificazione esterna, che, come già chiarito, consiste di un argomento di tipo induttivo.
Per tornare all’esempio, possiamo argomentare, a tale scopo, che abbiamo verificato che tutte le volte in cui è stato commesso un omicidio nel territorio di Canicattì, è risultato provato che quell’omicidio era stato ordinato dal capo mafia. E possiamo esibire queste esperienze ricorrenti a giustificazione (esterna) della massima secondo la quale “non è possibile commettere un omicidio a Canicattì senza ordine del capo mafia”10.
Questo tipo di ragionamento è stato, però, disatteso da numerose sentenze della Cassazione sulla problematica inerente al concorso di persone nel reato di omicidio volontario. In particolare, con riferimento alla responsabilità dei vertici di associazioni di tipo mafioso rispetto al compimento dei reati scopo posti dall’associazione complessivamente, la giurisprudenza della Suprema Corte stigmatizza qualsiasi automatismo probatorio di tema di responsabilità penale e colpevolezza. Sul punto, si riporta la una massima della Suprema Corte in tema di “omicidi eccellenti: “L’appartenenza ai vertici dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra” pur assumendo rilievo ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., non integra “ex se” la prova della colpevolezza dei dirigenti del sodalizio in riferimento ai delitti-fine commessi da taluno dei partecipi, anche se in attuazione di un disegno criminoso riferibile, in via programmatica, all’organizzazione. Alla luce della prassi instaurata dai vertici dell’associazione mafiosa e diretta, nell’ambito di un progetto strategico di tipo stragistico, a garantire un livello deliberativo e informativo “protetto” in relazione alla programmazione di delitti “eccellenti”, ai fini dell’effettività del concorso morale in ordine ai suddetti reati occorre dimostrare che: a) la regola, attestata in un determinato momento storico di operatività dell’organizzazione, per la quale i delitti “eccellenti” sono decisi dagli organi di vertice di “Cosa Nostra”, valga anche in una diversa fase della vita dell’associazione; b) vi sia stata una preventiva conoscenza delle articolazioni concrete del progetto delittuoso e delle connesse modalità esecutive; c) vi sia stata una conseguente manifestazione di approvazione ovvero una mancanza di manifesto dissenso. Diversamente, il ruolo di partecipe – anche in posizione gerarchicamente rilevante – da taluno rivestito nell’ambito della struttura organizzativa criminale finirebbe per rendere quel medesimo soggetto automaticamente responsabile di ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio – sia pure riferibile all’associazione di stampo mafioso e inserito nel quadro del programma criminoso -, in deroga al principio che dei delitti-fine rispondono soltanto coloro che materialmente e moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, volontario e consapevole all’attuazione della singola condotta delittuosa, alla stregua del principio costituzionale di personalità della responsabilità penale e dei comuni principi in tema di concorso di persone nel reato, essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità “di posizione”11.
Da ultimo, e sullo stesso piano del ragionamento giuridico e giudiziario posto dalla Suprema Corte è la giurisprudenza di merito. In un caso trattato dal sottoscritto, che vede protagonisti esponenti (capi e promotori) della malavita organizzata imputati di numerose e pesanti estorsioni commesse sul territorio di Caserta, il Tribunale di S.Maria C.V.12 ragiona in senso conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte sopra ricordata.
3. Le riflessioni che discorrono si riferiscono alla formula di giudizio dell’oltre ragionevole dubbio.
Com’è noto, è al sistema nordamericano che viene spontaneo guardare per conoscere le origini e i significati del predetto standard probatorio. A partire dalla ormai famosa sentenza della Corte Suprema in re Winship (1970) in cui il giudice Brennan esternava gli imprescindibili princìpi di civiltà sottesi alla regola in oggetto – l’ordinamento americano ha assorbito nei propri tessuti costitutivi il canone del ragionevole dubbio.
In Italia, la regola americana citata è stata codificata all’art. 533, comma 1, c.p.p. che ne riproduce fedelmente la portata applicativa.
Epperò, occorre intendersi (soprattutto perché tale regola di giudizio è spesso citata nelle aule di giudizio con superficialità ed inconsapevolezza) sul “dubbio” qualificato dalla sua “ragionevolezza” proiettato ai dati risultanti dal processo.
Il “dubbio” fa parte dell’esistenza dell’uomo e, dunque, della sua capacità di ragionare ed esprimere un linguaggio. Il dubbio fa parte della conoscenza umana e ne delinea il limite ed il confine della stessa13.
Gli antichi greci definivano il “dubbio” in termini di negazione: “a-poria” è la strada che “non” è tracciata in modo chiaro e visibile. Allo stesso modo, gli stessi antichi definivano la “verità”, una parola messa al bando, a mio avviso, dalla grammatica delle leggi, in termini non affermativi bensì di negazione: “a-letheia” è ciò che “non” si nasconde, si svela.
A ben vedere, il processo penale di tipo accusatorio tende ad assolvere una funzione aletica; e l’incertezza degli esiti cognitivi e decisori ne connota lo statuto epistemologico.
Occorre chiedersi: qual è la verità di cui stiamo parlando, qual è il dubbio idoneo a mettere in crisi l’ipotesi ricostruttiva del fatto, prospettata dall’accusa, che pretende invece di essere convalidata e garantita dalla valutazione conclusiva del giudice.
In tal contesto, che si muove sul binario fatto-accertamento giudiziario -verità processuale, s’inserisce il ragionamento probatorio del giudice ed il “suo” libero convincimento.
Il giudice dev’essere libero nel suo convincimento e nella decisione. Il che significa, libertà da condizionamenti, pressioni e dipendenze esterni, non però discrezionalità pura e arbitraria che si muove al di fuori dei binari e dei “percorsi di verità” delineati dalle regole epistemologiche del codice di rito.
Il veicolo per l’accertamento della verità nel processo penale è offerto dal ragionamento probatorio nel giudizio di accertamento del fatto: giudizio per sua natura incerto.
Le scelte di fondo sono racchiuse nella regole, forti e incisive, degli artt. 192, 546, comma 1 lett. e), 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., strettamente correlate alla riforma dell’art. 533, comma 1, con l’introduzione della regola di giudizio dell‘ “al di là di ogni ragionevole dubbio”14.
Non si pretende dal giudice una qualsiasi motivazione sul fatto, ma che egli abbia percorso l’itinerario della ragione scandito dalle citate regole epistemologiche: a partire dall’elemento di prova fino al risultato di prova, secondo criteri di inferenza, quali la massima di esperienza, la legge statistica, la legge scientifica di più o meno alto grado di attendibilità empirica.
S’è detto in precedenza che non ogni intimo dubbio del giudice penale legittima l’applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 533, comma 1, c.p.p. Ed invero, dalla lettura del testo non sembra che vi siano incertezze interpretative: solo il dubbio qualificato dalla ragionevolezza importa l’assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., sol il dubbio, frutto delle regole (applicate con saggezza, lealtà e nel rispetto dei diritti fondamentali della difesa) del processo penale, diviene regola di giudizio e applicazione della formula assolutoria.
L’aggettivo “ragionevole” è entrato nel nostro linguaggio giuridico attraverso, essenzialmente, il novellato art. 111 della Cost. che, nel riprodurre le garanzie del corpus dell’art. 6 della CEDU, ha consacrato il principio della ragionevole durata del processo. L’art. 533 c.p.p. ha riformulato il criterio risolutore del fatto incerto attraverso l’introduzione della formula dell’ “oltre ragionevole dubbio”. In prima analisi, va detto che il termine “ragionevole” rimanda ad istanze giusnaturalistiche che si traducono in rinnovati richiami alla prudenza del giudice15.
Il termine ragionevole è di origine latina16, ma la formula “oltre ragionevole dubbio” (beyond any reasonable doubt) è di matrice nordamericana ed affonda le radici ideali nel sistema penale statunitense, all’interno del quale convivono il metodo dell’intimo convincimento e la presenza della giuria come giudice del fatto17.
Il paradigma bard è, infatti, strettamente correlato a un ordinamento caratterizzato dalla manifestazione del giudizio sul fatto nella forma del verdetto immotivato di una giuria. Ed in tale contesto, appare significativo il riferimento al soggettivo state of mind dei giurati nei modelli di jury instructions che definiscono il ragionevole dubbio in termini di “that state of the case which….leaves the mind of the jurors in that condition that they cannot say they feel an abiding conviction, to a moral certainty, of the truth of the charge”18.
Il paradigma bard è entrato a far parte della nostra cultura del processo penale come regola probatoria scritta in seno all’art. 533, comma 1, c.p.p.
Tale introduzione rappresenta la presa di coscienza circa l’esigenza di contrastare sbandamenti giurisprudenziali in tema di accertamento di taluni elementi di fattispecie19.
In tal contesto, è stato affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità che “dubbio ragionevole” equivale a “dubbio resistente alla motivazione”, articolata secondo il modello normativo della motivazione in fatto delineata dagli artt. 192 e 546 c.p.p. che impongono al giudice di indicare le ragioni per le quali non ritiene attendibile le prove contrarie rispetto a quelle poste a fondamento della decisione. Pertanto, il dubbio può dirsi ragionevole quando le prove acquisite nell’istruttoria dibattimentale consentono una spiegazione alternativa dei fatti20.
Detta regola, quindi, esprime quantum e standard probatorio finalizzato all’ “incertezza” della prova in merito all’esistenza del fatto e all’attribuzione dello stesso all’imputato21.
In ultimo, secondo la giurisprudenza22 la regola dell’oltre il ragionevole dubbio ha messo definitivamente in crisi quell’orientamento sedimentato della giurisprudenza della Suprema corte secondo cui, in presenza di più ipotesi ricostruttive del fatto, era consentito al giudice di merito di adottarne una che conduceva alla condanna sol perché la riteneva più probabile rispetto ad altre.
4. Il tema è di straordinaria attualità, ed è lo stesso Giovanni Canzio ha sottolineare “la doverosità del rispetto dei termini delle investigazioni, atteso che dall’eccessivo scarto temporale con il giudizio deriva la concentrazione dei ‘media’ su quella che costituisce la formulazione, allo stato, di un’ipotesi accusatoria, destinata alla verifica dibattimentale secondo la regola decisoria dell’ ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’. Una troppo lunga indagine, ancor più se corredata da misure custodiali, esalta l’ipertrofia accusatoria, rafforza nell’opinione pubblica i pregiudizi di colpevolezza, può ledere il diritto di difesa dell’indagato, ne suscita la contrapposta ipertrofia difensiva“23.
Le parole del dott. Canzio rispecchiano la situazione italiana che, negli ultimi anni, ha dato vita a dei “mostri” televisivo-giudiziaro.
Così, a furor di popolo, abbiamo i famosi casi di “zio Michele Misseri”, “Thyssenkrupp”, “Spaccarotella”, “Terremoto de L’Aquila” , nei quali si è assistito ad una limitazione dell’incertezza probatoria al fine di “soddisfare” nonché “calmare” presunte istanze di giustizia proveniente dal popolo che guarda la tv della domenica.
Io la televisione non la guardo, ma, pur leggendo libri e quotidiani, francamente, esplico l’idea di una norma possibile quantomeno nella fase del dibattimento: “Il giudice alla lettura del dispositivo deve indicare i punti essenziali attraverso i quali giustificherà la motivazione di assoluzione o di condanna”.
5.A quanti avvocati è capitato di impattare con una decisione che enuncia una fantomatica supremazia dell’accertamento giudiziale del fatto sulle regole processuali di acquisizione della prova poste, non a caso, a garanzia del diritto di difesa.
A me è capitato. E due sono state le soluzioni, che rispecchiano le diversità culturali, di studio, ecc. dei magistrati italiani.
Dunque, colgo l’occasione per scrivere poche righe in merito ai rapporti fra accertamento (o meglio conoscenza di un fatto) e diritti della difesa e lex probatoria.
A mio giudizio, il solo rispetto dei diritti della difesa, nonché delle regole processuali determina una sentenza giusta.
La finalità cognitiva e l’accertamento delle responsabilità devono dunque essere contemperate alla garanzia dei diritti fondamentali, in primo luogo, dell’imputato che direttamente e personalmente subisce la pretesa punitiva dello Stato. Nel nostro ordinamento il fine dell’attuazione del diritto penale può essere raggiunto solo attraverso un giusto processo regolato dalla legge (art. 111 comma 1 Cost.) che risulta tale quando è assiologicamente orientato alla garanzia di tutti i valori costituzionali coinvolti: come ci ha insegnato la Corte costituzionale con la sentenza n. 317 del 2009, «un processo non ‘giusto’, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale», a prescindere dall’esito cognitivo al quale può pervenire. A ben vedere, l’art. 111 comma 1 Cost. stabilisce, testualmente, che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». Questa affermazione, di ampia portata, certamente riferibile anche alla giurisdizione penale, sancisce il principio di legalità processuale.
A dispetto della rilevanza costituzionale ed anche europea (notevoli sono i pronunciati della C. EDU), il principio di legalità processuale penale non trova però preciso riscontro nella prassi applicativa. Guardando alle concrete modalità applicative della disciplina codicistica, bisogna ammettere che oggi il processo penale è spesso regolato in modo del tutto autonomo da pratiche devianti. La mancanza di una inderogabile cornice di garanzia fornita dalla legge ordinaria si riflette inevitabilmente sul grado di tutela assicurato ai diritti degli individui coinvolti nel processo penale, in primis l’imputato. La legge, la forma codificata del procedere è da sempre una garanzia individuale. In particolare, questa funzione garantistica è evidente nel diritto delle prove, quel che interessa vieppiù. In tal senso, occorre ammettere che sul tema della legalità processuale si registra un notevole ritardo delle elaborazioni tanto dottrinali – e ciò è francamente incomprensibile, ponendo mente alla rilevanza sistematica del principio – quanto giurisprudenziali – e ciò, invece, è più agevolmente spiegabile con la diffusa avversione della magistratura al rispetto delle regole processuali vissute come “intralcio” all’accertamento della verità -.
A mio giudizio, il solo rispetto dei diritti della difesa, nonché delle regole processuali determina una sentenza giusta.
1° Caso (Giudice Monocratico, processo per i reati di costruzione abusiva e accumulo illeciti di rifiuti).
Durante la testimonianza della PG, lo stesso verbalizzante riferiva al Tribunale che i nomi e fatti dei soggetti (proprietario, committente, esecutore dei lavori e direttore degli stessi) erano stati appresi, in loco, da un geometra, le cui parole non furono verbalizzate. Il Tribunale, invitato dalla difesa a limitare la testimonianza della PG, non solo non ne limitava la stessa, ma contestualmente rigettava la richiesta di inutilizzabilità della testimonianza dello stesso operatore, richiamandosi proprio all’esigenza accertativo-cognitivo del fatto.
Vale la pena richiamare le parole della sentenza della Corte Cost. 30.7.2008, n. 305 (dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 195, comma 4, del codice di procedura penale, ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen., e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate) “è infatti irragionevole e, nel contempo, indirettamente lesivo del diritto di difesa e dei principi del giusto processo ritenere che la testimonianza de relato possa essere utilizzata qualora si riferisca a dichiarazioni rese con modalità non rispettose delle disposizioni degli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen., pur sussistendo le condizioni per la loro applicazione, mentre non lo sia qualora la dichiarazione sia stata ritualmente assunta e verbalizzata”.
Situazioni d’urgenza ed altro erano lontani da fatti, persone e luoghi. In tal caso, si è privilegiata la funzione giurisdizionale a danno dei diritti della difesa.
2° Caso (Tribunale Collegiale, processo Domitia per i reati di tentato omicidio, armi, estorsione, associazione a delinquere ed ecc).
Con la richiesta di prove, la difesa di ST. MA., moglie di SE. GI., eccepiva l’inutilizzabilità, ai sensi degli art. 191, 268, comma III, 271 c.p.p., di numerose intercettazioni telefoniche. Le intercettazioni erano finalizzate all’accertamento degli atti preparatori per il tentato omicidio in danno di Z. D.
Il Tribunale, con ben tre ordinanze, accoglieva l’eccezione.
Durante il processo, il PM, all’atto della testimonianza del M.llo dei Carabinieri (che ascoltò quelle conversazioni) cercò di “recuperare” il valore probatorio delle stesse, riportandole, con la testimonianza della PG, alla “conoscenza” del giudice.
Sul punto, la difesa di ST. MA. eccepiva l’inutilizzabilità della prova testimoniale perché, in buona sostanza, era stato “aggirato surrettiziamente” un divieto probatorio posto dalla legge processuale, cioè quello della assoluta inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche. La difesa faceva riferimento al generale “principio di non sostituibilità” delle prove affermato giurisprudenza dalle Sezioni Unite. La sentenza, 28 maggio 2003, Torcasio è una pietra miliare nella giurisprudenza della Cassazione in tema di prova. Per le Sezioni unite, quando il codice stabilisce un divieto probatorio oppure un’inutilizzabilità espressa è vietato il ricorso ad altri strumenti processuali, tipici o atipici, finalizzati ad aggirare surrettiziamente un simile sbarramento. Esiste, infatti, un principio di non sostituibilità che presidia i limiti ricavabili dal sistema. Ad analoghe ed altrettanto nitide conclusioni è giunta la recente sentenza delle Sezioni unite, 19 aprile 2012, Pasqua, sull’acquisizione della corrispondenza del detenuto.
Il Tribunale dava ragione alla difesa, garantendo un corretto equilibrio tra la funzione accertativo-cognitivo del processo e i diritti della difesa.
Corte di Cassazione Sez. Sesta Pen. – Sent. del 11.01.2013, n. 1514
Presidente Agrò – Relatore Citterio
Considerato in fatto
1. G.C. , dirigente scolastico di un istituto tecnico commerciale di (…) , era imputato di concorso in abuso d’ufficio e diffamazione in danno di G.M. , docente del medesimo istituto, per aver promosso la procedura di rito per l’irrogazione di provvedimento disciplinare nei confronti della docente, rappresentando un presunto illecito disciplinare in realtà non commesso, consistito nell’allontanamento arbitrario dall’istituto per ragioni di salute, avvenuto il 15.4.2004, con espressioni fortemente spregiative.
Il Tribunale di Campobasso con sentenza in data 9.12.2009 assolveva l’imputato perché il fatto non sussiste, in relazione al reato di abuso d’ufficio, e perché l’azione penale non poteva essere esercitata per intempestività della querela, quanto alla diffamazione.
Adita dall’appello della sola parte civile, la Corte distrettuale con sentenza del 10.11.2011-9.1.2012 affermava la responsabilità ai fini civili del C. , per il solo illecito di abuso d’ufficio, e lo condannava al risarcimento del danno ed alla rifusione parziale delle spese di difesa in favore della parte civile, che contestualmente determinava e liquidava.
1.1 La Corte d’appello argomentava che effettivamente il contenuto della nota con cui il dirigente scolastico aveva segnalato il presunto illecito disciplinare della docente era risultato non corrispondente al vero, perché sul punto la procedura disciplinare aveva attestato essere stato legittimo l’allontanamento dell’insegnante dalla scuola (per “violentissima ed improvvisa cefalea”, come comunicato dalla M. al dirigente per iscritto) per recarsi dal proprio medico di fiducia in un’ora nella quale la stessa non era in servizio (risulta dalla sentenza che il dirigente aveva richiesto alla docente di farsi visitare in istituto da un medico del servizio 118, come già accaduto in precedente occasione e come riferita sua prassi). Secondo la Corte distrettuale, la proposta di “sanzionamento disciplinare” doveva pertanto considerarsi in violazione di legge, perché basata sull’”inesatta qualificazione di ingiustificatezza dell’assenza dal servizio dell’insegnante” e quindi nella mancanza dei presupposti di fatto che consentono l’azione della P.A., tenuto conto che l’allontanamento era avvenuto in ora non di servizio e che il dirigente aveva taciuto pure l’avvenuta presentazione di successiva certificazione medica, del medesimo giorno e redatta nel medesimo orario “libero”, attestante infermità necessitante di riposo e cure per 3 giorni (dal ricorso si evince che il certificato pervenne nella stessa mattinata). Che il C. avesse agito al “precipuo scopo” di arrecare ingiusto danno alla M. si evinceva, per il Giudice d’appello, dal fatto che la proposta di sanzione disciplinare era stata fatta un mese dopo i fatti (e quindi avendo avuto l’imputato ogni tempo per i necessari chiarimenti ed accertamenti) e dal fatto che i rapporti tra i due erano contrassegnati da significativa tensione.
2. Con articolato ricorso personale, il C. enuncia quattro motivi, allegando pertinente documentazione secondo l’onere di autosufficienza del ricorso.
Il primo motivo svolge censure in rito:
– omessa motivazione sull’eccezione di inutilizzabilità delle prove orali, assunte davanti a giudice diverso e senza la successiva richiesta rinnovazione, tale non potendosi considerare il nuovo esame limitatosi alla richiesta di conferma delle precedenti dichiarazioni;
– mancanza dell’effettiva lettura e della dichiarazione degli atti utilizzabili per la decisione in luogo della lettura.
Il secondo motivo lamenta la mancata motivazione sia rispetto all’effettivo contenuto della nota, che si sarebbe limitata alla mera segnalazione di fatti realmente accaduti con, accompagnata da un giudizio di valore soggettivo, priva di efficacia causale diretta rispetto alla successiva e autonoma decisione del direttore generale dell’ufficio regionale scolastico, che tale fatto aveva ritenuto rilevante ed inserito in una più ampia contestazione: la peculiare natura e la limitata valenza dell’atto sarebbero state invece espressamente considerate e valutate nella sentenza assolutoria di primo grado (p.4), sicché sul punto la Corte avrebbe omesso il necessario confronto, sia all’apprezzamento del medesimo direttore generale sentito come teste in ordine alla ritualità delle due condotte.
Il terzo motivo deduce travisamento della prova in relazione all’incidenza della richiesta di allontanamento sull’orario scolastico, perché la M. dopo l’ora di “buco” avrebbe dovuto svolgere due ore di supplenza, sicché la sua richiesta andava ad incidere con immediatezza sull’attività scolastica programmata divenendo richiesta di allontanamento definitivo, nella giornata, che doveva essere appunto formalizzata ed autorizzata. Tant’è che proprio per giustificare tale assenza successiva la docente fece pervenire già in mattinata il certificato del proprio medico curante. L’irrilevanza dell’ora di “stacco”, nella peculiare fattispecie, sarebbe stata confermata dal medesimo direttore generale regionale. Solo a seguito del travisamento della prova, pertanto, la Corte distrettuale ha potuto giudicare “ben possibile” l’allontanamento della docente nel contesto temporale e, conseguentemente, falso il contenuto della segnalazione. Anche questo aspetto era stato espressamente argomentato e ritenuto dal primo Giudice, nella sentenza di assoluzione (p.4 e 5). Il ricorrente svolge quindi deduzioni a confutazione della lettura data dalla Corte d’appello ai singoli elementi valorizzati nella sua motivazione e, poi, richiamando ancora la sentenza del Tribunale, a sostegno della non configurabilità, nella fattispecie, dell’abuso d’ufficio sotto il profilo normativo, dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo (p. 22-27).
Il quarto motivo ripropone l’eccezione relativa alle conclusioni che il procuratore generale ha presentato, secondo il ricorrente invece dovendo essere le stesse precluse, stante la sola rilevanza civilistica delle questioni trattate.
2.1 La parte civile ha depositato memoria di confutazione dei motivi del ricorso, in particolare sul punti della configurabilità dell’abuso d’ufficio e della dolosa falsa rappresentazione dell’accaduto nella segnalazione disciplinare.
Ragioni della decisione
3.1 Le censure in rito del primo e del quarto motivo sono tutte manifestamente infondate.
Quanto alla prima, del primo motivo, il ricorrente non deduce di limitazioni occorse in relazione a domande proprie (o di altre parti); quanto alla seconda, del medesimo primo motivo, nulla è detto in ordine alla tempestività del rilievo, quantomeno in sede di conclusioni nel giudizio di primo grado e in sede d’appello.
Quanto al quarto motivo, l’art. 573 c.p.p. precisa che “l’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale”. Nel caso di specie l’appello è stato introdotto dall’impugnazione della parte civile ai sensi dell’art. 576.1 prima parte c.p.p. e trattato “con le forme ordinarie del processo penale”, di cui la partecipazione e le conclusioni della parte pubblica sono momento indefettibile (arg. anche ex Sez. 5, sent. 3096/1997).
3.2 Secondo e terzo motivo sono invece fondati nei termini che seguono.
3.2.1 Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte suprema, la motivazione della sentenza d’appello che riformi la sentenza di primo grado, specialmente nel caso in cui affermi per la prima volta una responsabilità negata dal Giudice precedente, si caratterizza per un obbligo peculiare, che si aggiunge a quello generale della non manifesta illogicità e non contraddittorietà, evincibile dalla lettera E) dell’art. 606.1 c.p.p. (si è in proposito parlato anche di “obbligo rafforzato”: Sez.5, sent. 35762/2008).
Nel caso di riforma radicale della precedente decisione, infatti, il Giudice d’appello deve anche confrontarsi in modo specifico e completo con le argomentazioni contenute nella prima sentenza (per tutte, Sez.6, sent. 22120/2012): non è pertanto sufficiente che la motivazione d’appello sia intrinsecamente esistente, non manifestamente illogica e non contraddittoria, supportando in tale usualmente sufficiente modo un apprezzamento di merito proprio del grado.
3.2.1.1 Tale principio rileva, in particolare, nel caso di decisione di prima condanna in grado di appello.
In questa evenienza, infatti, la ragione dell’inadeguatezza strutturale di una decisione d’appello che, pur in astratto correttamente motivata se in sé considerata, non dimostri di essersi anche confrontata con le (evidentemente) diverse ragioni della sentenza riformata, risulta dalla documentata non applicazione della regola di giudizio secondo la quale l’affermazione di responsabilità è possibile solo quando la colpevolezza risulta “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533.1 c.p.p.). Ed invero, come già precisato da due sentenze di questa Sezione (Sez. 6, sent. 40159/2011 e 4996/2011), a fronte del medesimo “compendio probatorio” la motivazione che si limiti a dare una lettura alternativa, ma non risulti “sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza”, viola quella regola di giudizio.
3.2.1.2 Va poi solo ribadito che la regola di giudizio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio” è efficace anche per l’affermazione della responsabilità ai fini civili che venga dichiarata nel processo penale, atteso il (già richiamato; contenuto dell’art. 573 c.p.p..
3.2.2 Orbene, nel caso concreto la Corte d’appello ha giudicato sussistere nella condotta del preside l’abuso d’ufficio, ritenendo integrato l’elemento costitutivo della violazione di legge in ragione del contenuto non rispondente al vero della nota che segnalava i fatti sollecitando l’esercizio dell’azione disciplinare: in particolare il rilievo del Giudice d’appello si è rivolto alla definizione di “arbitrarietà” dell’allontanamento, nonostante questo fosse avvenuto nella ed “ora di stacco”.
Ma il primo Giudice aveva evidenziato, con argomentazione con la quale il Giudice d’appello non si è confrontato (p.5), che nella medesima nota il dirigente aveva dato atto del malore asserito dalla docente e del fatto che lui stesso aveva promosso la chiamata del servizio di urgenza del 118. In sostanza, in tale nota vi erano già elementi di fatto che allertavano sulla peculiarità della vicenda e sulle asserite ragioni di salute che l’avevano determinata, sicché l’uso del termine arbitrario (nella qualificazione dell’allontanamento) costituiva commento personale di una situazione la cui peculiarità era in effetti oggettivamente mostrata con immediatezza. Se si aggiunge che – come avvertito dal Tribunale e non commentato dalla Corte distrettuale (il ricorrente, come visto, ha censurato specificamente in più punti il mancato confronto argomentativo, da parte della Corte d’appello, rispetto alla motivazione assolutoria del primo Giudice) – la docente era di servizio subito dopo l’ora di stacco (tant’è che aveva comunicato per iscritto il suo allontanamento, cosa altrimenti non necessaria, osservava il primo Giudice, se tale allontanamento e le ragioni che lo determinavano non avessero potuto influire sul prosieguo del servizio) e che in precedente analogo episodio la stessa docente, si era sottoposta all’accertamento in sede ad opera del 118, la motivazione d’appello sul punto della maliziosa falsa rappresentazione degli accadimenti si risolve in argomentazione sostanzialmente apparente, laddove non inserisce l’uso del termine “arbitrariamente” nel contesto oggettivo della nota e nella possibile lettura soggettiva del suo autore (è, ancora, dai punto di vista logico significativo che il termine della nota ripeta il termine apposto nell’immediatezza sotto la comunicazione della docente – fg. 2 alleg. ric. E p. 5 sent. Trib.).
L’annullamento della sentenza d’appello deve avvenire senza rinvio.
A fronte della motivazione del Tribunale, proprio la rilevata sostanziale apparenza della motivazione d’appello (che di fatto si fonda sulla valorizzazione autonoma ed in qualche modo decontestualizzata del termine “arbitrariamente”, pervenendo così ad una lettura del medesimo materiale probatorio solo alternativa, ma non pure “maggiormente persuasiva”, nel termini spiegati sub 3.2.1.1) attesta l’insussistenza del fatto di reato d’abuso nei termini concretamente contestati.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Depositata in Cancelleria il 11.01.2013
* Il presente elaborato costituisce una sintesi per la Camera Penale di S. Maria C.V. di una mia prossima pubblicazione in Rivista italiana di diritto e procedura penale.
0 Sull’argomento trattato si rinvia A. MARANDOLA, Ricostruzione “alternativa” del fatto e test di ragionevolezza del “dubbio“, in Arch. pen., 2012, p. 4; nonché P. FERRUA, La colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionale e Sezioni unite, a cura di L. Filippi, Cedam, 2007, p. 150 ss., e F. CAPRIOLI, L’accertamento della responsabilità penale “oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 64 ss.
1 M. DELMAS-MARTY, La prova penale, in L’indice penale, 1996, n. 3, pp. 609-610
2 Cfr. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, ed. Laterza, 1998, pp. 94-135 e p. 546 ss.; L. FERRAJOLI, L’etica della giurisdizione penale, in Etica e deontologia giudiziaria, Vivarium, Napoli, 2003, p. 31.
3 Ampliamente sulla tematica è G. UBERTIS, La conoscenza del fatto nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1992, pp. 4 e ss; P. TONINI, C. CONTI, Il diritto delle prove penali, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 2 e ss.
4 Osserva P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in P. Ferrua, Studi sul processo penale, Vol. II, Anamorfosi del processo accusatorio, Giappichelli, Torino, 1992, p. 48 che “le semplificazioni di chi vorrebbe prospettare «il processo accusatorio come pura soluzione di conflitti tra le parti, dominato da una esasperata disponibilità della prova, da una logica di laissez faire, pronta a sacrificare le esigenze di giustizia sostanziale»; ed infatti «si è insistito troppo sul contraddittorio come diritto di difesa, come garanzia individuale; e non si è, con pari forza, evidenziata la sua dimensione pubblicistica di mezzo per l’accertamento della verità, per la corretta ricostruzione dei fatti»
5 Sul punto, ampliamente P. FERRUA, Iniziativa d’ufficio del giudice e onere della prova tra principio di imparzialità e funzione cognitiva del processo penale, in Cass. Pen, 2011, p. 2010.
6 P. TONINI, C. CONTI, Il diritto delle prove penali, Giuffrè, Milano, 2012, p. 6.
7 Numerose sono le pubblicazioni in merito al ragionamento probatorio, si segnalano M. TARUFFO, G. UBERTIS e G. CANZIO, Fatto, prova e verità (alla luce del principio dell’oltre ragionevole dubbio), in Criminalia, 2009, 4, pp. 305 e ss.; G. CANZIO, L’oltre il ragionevole dubbio come regola probatoria e di giudizio penale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2004, n 47, pp. 303 e ss; G. CANZIO, Prova scientifica. Ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice del processo penale, in Diritto penale e processo, 2003, 10, pp. 1103 e ss., G. CARLIZZI, Ragionamento giudiziale e complessità diacronica del circolo ermeneutico, in Cass. Pen., 2006, 46, pp. 1184 e ss.
8 J. WROBLEWSKI, Livelli di giustificazione delle decisioni giuridiche, in AA.VV., Etica e diritto, a cura di Gianformaggio e Leocaldano, Bari 1986, p. 203.
9 Cfr. G. BONIOLO, P. VIDALI, Strumenti per ragionare, Milano, Mondadori, pp. 60 e ss.; da ultimo sui diversi tipi di ragionamento si rinvia a A. IACONA, Usi e abusi del vocabolario della logica in una discussa sentenza della Corte di cassazione nota a Cass., V, 9.3.2012, n. 15727, Dell’Utri, in Cass. Pen. 11/2012, pp. 3800 e ss, G. CARLIZZI, Critica della responsabilità seriale. Un contributo alla logica e alla metodologia del ragionamento probatorio, in Quaderni della Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 2012, pp. 291 e ss.
10 Sul ragionamento abduttivo, A. KAUFMANN, Il ruolo dell’abduzione nel procedimento di individuazione del diritto, in Ars interpretandi, 2001, p. 317; A. NAPPI, Il controllo della Corte di Cassazione sul ragionamento probatorio del giudice di merito, Roma, CSM, 1998. In tema, F. ARGIRO’, La responsabilità dei capi-clan per i reati-fine commessi dagli associati tra regole di esperienza e criteri di imputazione oggettiva, nota a sentenza Ass. S. Maria Capua Vetere, 15/09/05(dep. 15/06/06), Abbate; G. GENTILE, Modelli concettuali e ragionamento probatorio nella prima sentenza penale su ‘Calciopoli’ nota a sentenza: Trib. Napoli, sez. Gup. 19 dicembre 2009, in Il Foro Napoletano, 1, 2012, pp. 192 e ss.
11 Cass., V, 30.5.2002, n. 18845, in Cass. Pen.,2004, 3625; conforme Cass., I, 2.12.2003, n. 13349, in Cass. Pen., 2005, 2583; Cass., V, 3.7.2003, n. 11914 (strage di via D’Amelio). In altro caso la S. C., I, 26.2.2009, n. 11811, in Cass. Pen., 2010, 4, 1437 con nota di E. MACULAN, Crimini di massa e modelli di attribuzione della responsabilità:riflessioni a margine della sentenza sul caso “Astiz”, ha, però, precisato, che la perpetrazione di omicidi aggravati nel contesto di una struttura illegale clandestina di detenzione e soppressione degli oppositori politici consente di attribuire la responsabilità per gli omicidi stessi ad un soggetto che prestava servizio all’interno di tale struttura in qualità di ufficiale, con poteri di comando e controllo, indipendentemente dalla dimostrazione di personali contatti dell’ufficiale con le singole persone offese. La collaborazione alla gestione della struttura clandestina criminale ove erano ristrette le vittime rappresenta un contributo materiale alla causazione degli omicidi delle persone ivi detenute, la cui soppressione costituiva uno dei fini cui la struttura era preordinata.
12 La sentenza è quella del Tribunale di S. Maria C.V., I sezione penale, 22.1.2013, Pres. G. Napoletano, imp. Coppola+8.
13 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico philosophicus, PBE, 2009. Nella sua opera Wittgenstein pone l’accento sul rapporto tra “conoscenza dell’uomo” e “dubbio”, esprimendosi così: “non ha senso conoscere in un contesto in cui puoi dubitare”.
14 G. CANZIO, Il processo penale fra verità e dubbio, intervento al Corso di aggiornamento organizzato dalla Camera Penale di Firenze su “Il giudizio di cassazione nel sistema processuale penale”,27 novembre 2009; G. CANZIO, L’oltre ragionevole dubbio come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. It. Proc. Pen., 1, 2004, pp. 303 e ss.
15 In tal senso è E.M. CATALANO, Il concetto di ragionevolezza tra lessico e cultura del processo penale, in Dir. Pen e proc. 1/2011, pp. 85 e ss.
16 Rationabilem a sua volta tratto dalla base di ratio (ragione) e significa “dotato di ragione, che si lascia guidare dalla ragione”. A sua volta il termine latino “ragione” deriva da ratio che significa calcolo, conto, misura, regola. Così O. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Firenze, 1926. Peraltro, secondo P. FERRUA, Impugnazioni, Cassazione a rischio paralisi, in Dir. Giust., 2005, n. 36, p. 107, tra ragionevole e razionale corre la stessa differenza che v’è tra prova empirica e dimostrazione matematica.
17 Cfr. la nota sentenza della Corte suprema in re Winship, 397 U.S. 358 (1970).
18 V. G. CANZIO, prefazione a A. Dershowitz, Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, Milano, 2007, p. 10; G. CANZIO, L’ “oltre ragionevole dubbio”come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. It. Dir proc. Pen., 2004, p. 304.
19 Così E. M. CATALANO, Op. ult. Cit., p. 92
20 In dottrina si vedano i lavori di F. ZACCARIA, Il “ragionevole dubbio” tra giudizio cautelare e giudizio di merito, in Cass. Pen., 2009, p. 609; F.M. IACOVIELLO, Lo standard probatorio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, in Cass. Pen., 2006, p. 3896; E.M. CATALANO, Op. ult. Cit., p. 92. Sulla regola del BARD applicata alla riforma della sentenza assolutoria, da ultimo A. SCARCELLA, Regola del bard nel giudizio di appello e riforma «contra reum» della sentenza nota a Cass. Pen., Sez. VI, 9 febbraio 2012, n. 4996, in Diritto penale e processo, n. 2/2013, pp. 205.Per l’applicazione giurisprudenziale della regola dell’oltre ragionevole dubbio si segnalano le seguenti decisioni: Corte di Assise di Appello di Perugia, 3.10.2011 (dep. 15.12.2011), imp. Knox e Sollecito;Corte di Assise di Appello di Roma, 27.4.2012 (dep. 7.6.2012), imp. Brusco; Cass., I, 26.5.2010, n. 19933, Erardi, in Dir. pen. proc., 2011, p. 203,: «il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192, secondo comma, c.p.p. […] deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di razionalità razionale, quindi alla “certezza processuale” che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio». Nello stesso senso sono Cass., I, 3.3.2010, Giampà e Cass., I, 24.10.2011, Javad.
21 Si veda in giurisprudenza Cass., Sez. I, 14 giugno 2006, Ganci, in Mass. Uff., n. 234111: «con la previsione della regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio […] il legislatore non ha introdotto un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice, ma ha semplicemente formalizzato un principio già acquisito dalla giurisprudenza, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell’imputato»; Cass., Sez. II, 7 giugno 2006, Serino, «la modifica dell’art. 533 […] ha carattere meramente descrittivo, più che sostanziale, dato che anche in precedenza il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava il proscioglimento a norma dell’art. 530, secondo comma, cod. proc. pen». V. anche Cass., Sez. II, 18 aprile 2008, Crisiglione,«la previsione normativa della regola di giudizio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato»
22 Cass., IV, 12.11.2009, Durante.
23 G. CANZIO, Inaugurazione dell’anno giudiziario 2013: la relazione del Presidente della Corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio, Milano, 2013.