BEST PRACTICE: nota a Cass., III, 16.5.2012, n. 18774, Staicu ed altri.
“Testo vuol dire tessuto,
ordito di fili diversi e concatenati;
e a dare sostanza a questo tessuto sono le pratiche sociali
con i loro significati, secondo quel rapporto
circolare dall’azione al testo e dal testo all’azione”
Paul Ricoeur
di Cesare Gesmundo
SOMMARIO: 1. Dal “testo” all’ “azione”; 2. Tassatività e divieto di analogia in malam partem, quali corollari della legalità penale; 3. La confisca obbligatoria generale; 4. La portata sanzionatoria della confisca speciale ambientale e pericolosità della res.
1. La sentenza n. 18774 del 16.5.2012, Staicu della III sezione penale della Suprema Corte di Cassazione (prodotta su ricorso del PM del Tribunale di Orvieto), appare meritevole di annotazione perché tratta, con ampio respiro, tematiche sulle quali, negli ultimi anni, hanno posato il pensiero i più importanti giuristi, filosofi ed interpreti della cosa giudiziaria in campo penale.
Come accennato, gli argomenti trattati dalla sentenza sono di ampio respiro intellettuale: si va dalla interpretazione del testo delle norme penali e processuali fino al divieto di analogia in malam partem.
Si scorgono, anche argomenti in merito alla pericolosità intrinseca ed estrinseca della res da sottoporre a confisca penale-ambientale e alla natura (misura di sicurezza o pena) della stessa.
Come ricordato dal grande maestro (RICOEUR) dell’ermeneutica filosofica del ’900 (le cui opere sono, ai più, sconosciute, dunque al contempo da lectio magistralis), il testo giuridico, come ogni altro testo, è un discorso fissato dalla scrittura che chiama i destinatari a un dialogo parlante. Il testo giuridico chiama il lettore ad una interpretazione di esso; chiama il Giudice alla sua applicazione secondo le pratiche sociali, vivendo secondo il comune sentire del suo applicatore.
Tuttavia, il testo giuridico non è rinchiuso su se stesso ma aperto verso qualcos’ altro. Ogni testo, ricorda sempre RICOEUR, in quanto aperto alla lettura, è disponibile a concatenarsi ad altri discorsi, è aperto alla interpretazione, che è il concreto risultato delle concatenazioni.
Ed è proprio dal testo degli art. 240, comma 2, c.p., 460, comma 2, c.p.p. e artt. 256, comma 2, e 259, comma 3 (codice ambientale) che parte la lezione della Cassazione.
Si discute se, con il decreto penale di condanna, il GIP possa ordinare la misura di sicurezza patrimoniale della confisca, ai sensi degli art. 240, comma 2, c.p., art. 460, comma 2, c.p.p. e artt. 256 e 259 (codice ambientale), del terreno adibito a discarica abusiva (art. 256, comma 3) e del mezzo utilizzato per il trasporto di rifiuti (art. 259, comma 2).
L’argomento non è di poco conto quando vi sono in gioco i diritti patrimoniali degli imputati.
Dunque il testo delle norme oggetto di interpretazione da parte della Corte.
La Suprema Corte con una commistione fra interpretazione letterale e sistematica delle quattro norme addiviene ad una conclusione che va a rafforzare i precedenti arresti della stessa III sezione penale (Cass., III, 2.7.2008, n. 26548, Mazzucato; Cass., III, 19.3.2009, n. 24659, Mongardi; Cass., III, 7.7.2009, n. 36063, PM in proc. Renna) ed a negare l’orientamento opposto (Cass., III, 29.1.2008, n. 4545).
La Corte, richiamandosi ai citati arresti, rileva che le disposizioni delle norme di cui agli art. 256, comma 3 e 259, comma 2 del TU. Ambientale (d.lgs n. 152/2006), contemplano quali provvedimenti ai quali consegue la confisca obbligatoria dell’area adibita a discarica abusiva o del veicolo utilizzato per il trasporto illecito esclusivamente la sentenza di condanna e quella di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. e non anche il decreto penale di condanna. In corrispondenza, l’art. 460, comma 2, c.p.p. dispone che con il decreto di condanna il giudice ordina la confisca nei casi previsti dall’art. 240 cod. pen., comma 2, e, quindi, escludendo implicitamente le ipotesi in cui la confisca sia prevista come obbligatoria da altre disposizioni di legge.
Dunque l’azione dei testi giuridici interpretati.
Dalla ricordata operazione ermeneutica, la Corte trae la conseguenza della negazione di una interpretazione estensiva degli artt. 256 e 259 cit., nel senso di includervi anche l’ipotesi del decreto penale.
Ricorda la Corte che, queste disposizioni, invero, non si riferiscono genericamente alla “condanna”, ossia non descrivono il contenuto della decisione, ma si riferiscono esplicitamente alla sua struttura, specificando che si deve trattare di “sentenza di condanna o di patteggiamento”. Il legislatore ha dunque utilizzato un termine specifico e non un termine di genere (“condanna”) che ricomprenda varie ipotesi di specie (condanna a seguito di sentenza; a seguito di decreto, a seguito di patteggiamento).
La Corte, in altro modo, scarta l’ipotesi paventata della applicazione analogica delle norme citate.
E lo fa sostenendo che: “intendere la species come genus significherebbe propriamente fare applicazione analogica di una norma ad una fattispecie diversa in virtù dell’identità di ratio” (in materia di trasporto di rifiuti e divieto di analogia in malam partem, va segnalata anche Cass., 8.5.2012, n. 16990, Coppola, con la quale si è esclusa la confisca obbligatoria, ostandovi il ricordato divieto di analogia, degli strumenti di lavoro, pale meccaniche ed ecc., che non abbiano la qualità di mezzi di trasporto). E proseguendo, ancora in tema di divieto di interpretazione in malam partem (riferita ai testi giuridici dell’unione europea ed alla giurisprudenza della Corte di Giustizia) si segnala la nota sentenza delle Sezioni Unite, 25.6.2009, n. 38691, Caruso (in tema di confisca per equivalente del “solo“ prezzo del peculato e della corruzione) con nota di V. MANES, in Cass. Pen., n. 1/2010, pp. 90-118 e di A. M. MAUGERI, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2/2011, pp. 777 e ss.
Dunque, per la Corte va rispettato il principio di legalità in materia penale (art. 25 Cost.) ed il divieto di l’analogia in malam partem (art. 14 preleggi al codice civile).
Nondimeno, la Corte scarta l’ipotesi della possibilità di far confluire nell’art. 240, comma 2, c.p. anche le ipotesi di confische obbligatorie previste da leggi speciali, per giustificare l’applicazione di dette confische con il decreto penale di condanna.
Sul punto, la Cassazione è chiarissima nel suo passaggio motivazionale nel sostenere che: “in senso contrario alla possibilità di applicazione della confisca con il decreto penale, opera anche il criterio sistematico. Invero, l’art. 460 cod. proc. pen. e il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, artt. 256 e 259, sono in coordinazione tra loro: il primo esclude che il decreto si estenda alle confische obbligatorie previste da leggi speciali e gli altri due (che prevedono un confisca obbligatoria speciale) escludono proprio il decreto penale. Vi è quindi una rispondenza tra le disposizioni, nel senso della volontà del legislatore di escludere l’applicazione della confisca obbligatoria, allorchè il procedimento penale venga definito mediante decreto penale di condanna. L’opinione opposta (Cass., III, 29.1.2008, n. 4545) ritiene che vi sia una equivalenza biunivoca tra confisca obbligatoria ex art. 240 cod. pen., comma 2, e confische obbligatorie previste da leggi speciali, nel senso che dove si parla di confisca ex art. 240 cod. pen., comma 2, si dovrebbero intendervi ricomprese anche le confische obbligatorie speciali e viceversa. Invece questa equivalenza non c’è. E difatti la giurisprudenza di questa Corte l’ha sempre esclusa, affermando costantemente (cfr. Sez. Un., 15.12.1992, n. 1811/93, Bissoli, m. 192494; Sez. Un., 25.3.1993, n. 5, Carlea, m. 193120; e più recentemente Sez. IlI, 11.1.2005, n. 2949, Gazziero, m. 230868) che le misure di sicurezza patrimoniale previste come obbligatorie da leggi speciali, nel caso di condanna dell’imputato, non sono equiparabili a quella di cui all’art. 240 cod. pen., comma 2, avente ad oggetto il prezzo del reato ovvero le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, sicchè la previsione della applicabilità della misura di sicurezza patrimoniale ex art. 240 cod. pen., comma 2, non è estensibile ad altre ipotesi di confisca obbligatoria previste da leggi speciali, al di fuori dei casi in cui la stessa legge speciale la consente.
Il passaggio motivazionale testé citato è rafforzato, poi, dalle argomentazioni in merito alla ratio legisdelle disposizioni citate. In buona sostanza, la Corte individua nella confisca ex artt. 256, 259 T.U. Ambientale una funzione sanzionatoria di rappresaglia legale nei confronti dell’autore del reato e mira a colpirlo nei suoi beni. Spiega la Corte che è razionale pensare che il legislatore abbia voluto escludere tale confisca nei casi di decreto penale, tipicamente meno gravi. Aggiunge la stessa che, per converso, sarebbe irrazionale consentire una forte mitigazione della pena ed imporre nel contempo una misura così radicale. Conclude la Corte che: “nella strategia sanzionatoria e deterrente del legislatore, pertanto, decreto penale ed esclusione della confisca appaiono in sintonia”.
Ed infine, la Corte chiudendo il “circolo ermeneutico della sentenza“, fa una caratterizzazione di non intrinseca pericolosità del terreno adibito a discarica abusiva e del mezzo utilizzato per il trasporto dei rifiuti.
Le argomentazioni che giustificano tale assunto sono convincenti.
Sul punto, si può scorgere il discorso della Corte che è tutto incentrato sull’applicazione giurisprudenziale della nota sentenza delle Sezioni Unite, 24.05.2004, n. 29951, Focarelli. Quest’ultimo importante arresto, così come si può leggere nella sentenza in commento, al contempo schematizza e spiega le ragioni del legislatore sottese all’art. 240, commi 1 e 2, c.p. concretizzandone la portata applicativa della ricordata confisca obbligatoria e dunque escludendone al caso di specie.
2. La sentenza in commento offre, altresì, lo spunto per una riflessione che al contempo si può definire teorico-manualistico e pratico-giurisprudenziale.
Senza pretese di insegnamento e di esaustività, queste ultime da ricercare nei manuali e nei trattati di diritto penale, mi permetto far accenno ai due corollari del principio costituzionale di legalità penale.
Dunque tassatività-determinatezza della fattispecie incriminatrice da un lato e divieto di analogia in malam partem dall’altro. Due corollari del precetto di legalità strettamente legati fra loro.
In principio, come ricorda PAGLIARO, le peculiari funzioni della normazione penale si riflettono tanto sulle caratteristiche che devono essere proprie del testo di legge, quanto alle modalità del processo interpretativo che lo ha per oggetto. Alle norme penali, dunque, è affidata la tenuta dell’intero ordinamento come struttura pubblicistica, e questa caratteristica condiziona, al contempo, anche il tipo di testo che deve essere impiegato nelle disposizioni che le contengono.
Insegna autorevole dottrina risalente al maestro tedesco W. HASSEMER che i testi costituiscono da secoli il medium fondamentale e ineliminabile per il diritto e per la legge. Continua HASSEMER, puntualizzando che ciò che ha validità è fissato in forma scritta; è testo sia la codificazione delle disposizioni delle norme, sia le sentenze scritte e vincolanti entro i sistemi di diritto giurisprudenziale, che si legano fra di loro rimandandosi l’una l’altra.
Il testo di una disposizione penale deve essere semplice e immanente nella comprensività, tale da renderlo alla portatadella intera popolazione osservante le regole. Il linguaggio del testo deve essere chiaro, e, aggiungo, necessariamente accompagnato da un substrato di spiegazione quantomeno empirica, con un fondamento nella realtà sociale. Soltanto, a mio avviso, con questa caratteristica il linguaggio di un testo può essere compreso, indi spiegato dagli stessi consociati.
In merito al linguaggio comune del precetto penale, vale la pena ricordare due recenti interventi delle Sezioni Unite.
Il primo è del 25.10.2011, n. 37954, Orlano (in Cass. Pen., n. 5/2012, pp. 1642 e ss.) con il quale la Corte interpreta le nozioni comuni di “altruità“, “denaro“, “possesso” e “detenzione” dell’art. 646 c.p. attribuendo alle stesse un significato giuridico tipicamente penale, donde escludendo il reato di appropriazione indebita (mero illecito civile) nella condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo.
Il secondo è del 19.01.2012, n. 14484, Volkswagen Leasing, ed ha per oggetto il linguaggio comune dell’art. 240 c.p., in particolare la nozione di “appartenenza della cosa a persona estranea al reato”. Ed invero, lo sforzo ermeneutico della Corte ha riportato il concetto di “appartenenza” nel alveo tipico del significato penale: “ la nozione di ‘appartenenza’ della cosa […] non ammette un’estensione illimitata di essa a posizioni generiche di disponibilità e godimento del bene. Le previsioni di specialità dell’istituto del leasing vanno mantenute nell’ambito delle relative ipotesi, ma non possono costituire il fondamento di più ampie generalizzazioni ed in specie della compressione di posizioni di diritto reale”. Sicché, conclude il giudice di legittimità che “non è confiscabile la vettura condotta in stato di ebbrezza dall’autore del reato, utilizzatore del veicolo in relazione a contratto di leasing, se il concedente, proprietario del mezzo, sia estraneo al reato”.
Epperò, e pur vero, che la normazione penale, negli ultimi anni, è stata abbisognevole di un linguaggio tecnico (in materia fiscale, edilizio-urbanistico, ed ecc.), ma, e qui non concordo con il PAGLIARO (secondo il quale linguaggio tecnico fa pendant con interpreti tecnici), lo stesso legislatore ne ha specificato la portata, tal volta riducendolo a concetti-nozioni (ad esempio in tema di false fatturazioni, codice della privacy ed ecc.).
La funzione del diritto penale e della finalità dello stesso di garantire la tenutadell’ordinamento giuridico comporta un ulteriore riflesso sul testo delle disposizioni penali e sulla loro interpretazione. Come è stato osservato (PAGLIARO, DI GIOVINE) alla pesantezza delle sanzioni penali deve far riscontro, in un ordinamento ispirato ai principi di civiltà, una particolare cautela nella loro applicazione. Il principio di legalità, per tradizione illuministica, è uno dei mezzi predisposti a tal uopo. Lo stesso principio, in quanto esige che la fonte del diritto penale sia soltanto la legge o l’atto equiparato ad essa, non pone, circa il testo e la interpretazione delle norme penali, problemi che non siano anche delle altre branche del diritto (PAGLIARO). Tuttavia, esso ha sviluppato come corollario: il divieto di analogia in malam partem ed, in tempi recenti, il principio di tassatività.
Il divieto di analogia in malam partem fa sorgere, per il legislatore penale, la necessità di indicare con il testo tutte, e proprio tutte, le condotte che egli vuole incriminare. Se ne dimentica qualcuna, non vi sarà possibilità, per l’interprete, di invocare la eadem ratio ed ampliare la punibilità a casi simili o similari.
Per la dottrina classica (MANZINI) l’inesistenza di una incriminazione relativa ad un determinato fatto significa che questo è già regolato negativamente dal diritto positivo, nel senso cioè della libertà. Dunque, il divieto di analogia in campo penale è espressione del precetto “nullum crimen, nulla poena sine lege“.
Come è stato osservato (PAGLIARO), solo un’ attenta considerazione dei modelli linguistici (elementi vaghi e normativi della fattispecie) da impiegare nel testo di una norma, potrà salvaguardare il cittadino dall’utilizzo dell’analogia in malam partem o da interpretazioni dello stesso tipo.
Ed invero, per dirla con HASSEMER, un linguaggio corretto delle norma realizza un diritto giusto e, al contempo, neutralizza la minaccia della analogia in malam partem e delle interpretazioni estensive.
Si diceva sopra che dal principio di legalità è germogliato, in tempi recenti, il principio di tassatività della legge penale.
Tal principio comporta che la descrizione del fatto incriminato debba essere effettuato, dal legislatore, nel modo più preciso possibile. Secondo la dottrina (PAGLIARO), il principio in questione contrasta con l’esigenza, per il legislatore penale, di dare alla norma un linguaggio comune, di tipo empirico aggiungerei.
A mio avviso, ciò non lo è stato con il codice Rocco, pervaso da un eccessivo tecnicismo.
A oggi, si ancora alla ricerca di una maggiore precisione nel linguaggio delle norme penali, che, come detto, deve essere ancorato ad una dato empirico di riferimento.
Ed allora, se è vero che la proposizione di un linguaggio per parafrasare il grande filosofo viennese (WITTGENSTEIN) è l’immagine della realtà: “La proposizione è un’immagine della realtà: infatti io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione la comprendo senza che me ne si dia il senso” (4.021), si può concludere che il testo di una norma penale deve avere un substrato empirico di riferimento, tale da essere riscontrabile nella realtà.
La norma vive nella realtà con l’interpretazione del giudice, al quale è assegnato il compito di renderla plastica, ma, al contempo, rispettando il principio di legalità e corollario annesso.
Esempio di ciò lo si ritrova nel linguaggio utilizzato dalla disposizione all’art. 56 del c.p. che punisce il tentativo di delitto con la formula: “atti idonei diretti in modo non equivoco”. Questa ultima formula se interpretata correttamente conduce allo stesso risultato (empirico) applicativo nel caso in cui la formula utilizzata fosse stata: “colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l’esecuzione.”
Tal ultimo linguaggio, si ricordi, era utilizzato dal codice Zanardelli, art. 61, del 1889 per incriminare il tentativo di delitto che poneva la soglia di punibilità del delitto programmato nel momento in cui l’agente avesse cominciato l’esecuzione dell’azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili ed atti di esecuzione punibili, e di conseguenza il nascere dei problemi interpretativi del confine di punibilità fra detti atti.
3. Senza pretese di esaustività e di insegnamento, anche perché questo scritto non lo richiede, la sentenza in commento offre una piccola l’analisi struttura della confisca obbligatoria prevista dall’art. 240 c.p.
Dunque, come argomento dalla sentenza della III sezione della Suprema Corte di Cassazione, una confisca obbligatoria di parte generale, nettamente distinta dalle ipotesi speciali di confisca, come quella ambientale.
L’origine storica della confisca può farsi risalire ai romani, che con termine cum fiscus intendevano riferirsi ai patrimoni dei possidenti destinati all‘istituzione imperiale.
La confisca generale è disciplinata, come accennato, dalle due disposizioni contenute nella norma di cui all’art. 240 c.p.
La prima disposizione, comma I, contempla l’ipotesi della confisca facoltativa, attraverso la formula il giudice può (si tratta di una mera facoltà, non di un obbligo) ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto, il III comma dello stesso articolo aggiunge che le disposizioni del I comma non si applicano se la cosa appartiene a persona estranea al reato.
Il precipuo tema argomentato dalla sentenza della III sezione della Cassazione, però, involge la confisca generale obbligatoria.
Essa è disciplinata al II comma dell’art. 240 c.p., ove è stabilito che il giudice deve sempre ordinare la confisca: 1) delle cose che costituiscono il prezzo (il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito” vedi Sez. Unite : 24.2.1993, n. 1811, Bissoli; 17.10.1996, n. 9149, Chabni Sam, 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti S.p.a ed altri) del reato; 2) delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata sentenza di condanna.
Il lettore del testo può subito notare, che il profitto del reato è assoggettato a confisca facoltativa, a differenza del prezzo del reato che è sottoposto a confisca obbligatoria.
Problemi interpretativi non sorgono con riferimento alle cose che sono, per definizione dottrinaria e giurisprudenziale, intrinsecamente pericolose o criminose ovvero a quelle cose che pur non essendo intrinsecamente pericolose (come nel caso del terreno adibito a discarica e del mezzo di trasporto dei rifiuti illeciti) appartenga a persona pericolosa, anche nel caso in cui maturi una causa estintiva del reato, essendovi l’obbligo per il giudice di ordinare detta confisca a prescindere da una sentenza di “condanna” o solo di “accertamento” (cfr. l’ipotesi della lottizzazione abusiva) di responsabilità.
Si registra contrasto giurisprudenziale, invece, e relativamente alla confisca del “prezzo del reato“, nel caso in cui il giudice si trovi al cospetto di una causa di estinzione del reato. Sul punto le Sezioni Unite, 19.07.2008, n.38834, De Maio, in Cass. Pen., 2009, 1392 e ss. (conf. Cass., VI, 2.3.2011, n. 8382) avevano ribadito (S.U., 25.03.1993, n. 5, Carlea) che l’estinzione del reato preclude l’applicazione della confisca facoltativa e obbligatoria ai sensi dell’art. 240, comma 2, n.1, c.p., sicché, ricordavano le Sezioni Unite, l’avverbio «sempre», previsto fra le note descrittive della disciplina sanzionatoria contenuta nell’art. 722 c.p., ha il significato di rendere obbligatoria una confisca che altrimenti sarebbe stata facoltativa, ma non quello di consentire l’applicazione della misura anche nel caso di estinzione del reato. Di talché, ribadiscono le Sezioni Unite, l’avverbio «sempre», previsto in apertura del comma 2 dell’art. 240 c.p., intende rendere obbligatoria, diversamente da quanto prescritto nel comma 1, una confisca che altrimenti sarebbe stata facoltativa.
La giustificazione esterna di detta motivazione è stata, da ultimo, messa in crisi dalla sentenza della II sezione penale, n. 32273 del 25.5.2010, Pastore, definita dallo stesso estensore di politica criminale (clamorosamente però la sentenza non spiega come le “ragioni di politica criminale” possano trovare fondamento nel dato testuale, che proprio con riferimento alla confisca di cui all’art. 12 sexies dispone che “è sempre disposta la confisca” ma solo “nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale”).
In buona sostanza ed in merito all‘interpretazione dell‘art. 12 sexies, la Suprema Corte ragiona sul concetto di “accertamento” del reato (quindi non di condanna, questa ultima prevista, come detto, testualmente in seno all’ art. 12 sexies) per legittimare l’applicazione della confisca in presenza di una causa di estinzione del reato.
Sempre in tema di applicazione dell’art. 12 sexies, in caso di estinzione del reato, va menzionato un recente arresto della II sezione penale (7.2.2012, n. 8102), che, ancora una volta, conclude per l’operatività della ricordata confisca in presenza di estinzione del reato. Così la massima: “in caso di estinzione del reato (nella specie per intervenuta prescrizione) è applicabile la confisca obbligatoria, pur in assenza di sentenza di condanna, non solo nelle ipotesi di cui al n. 2 del comma 2 dell’art. 240 c.p., ma anche in quelle previste dal n. 1 dello stesso comma 2 del citato art. 240 nonché dall’art. 12 sexies d.l. 8 giugno 1992 n. 306, conv. dalla l. 7 agosto 1992 n. 356. In tali ipotesi, compete al giudice accertare l’esistenza del fatto costituente reato, trattandosi di indagine che non investe questioni relative all’azione penale, bensì soltanto l’applicazione di una misura di sicurezza, sottratta all’effetto preclusivo della causa estintiva” (Cassazione penale, II, 25/05/2010, n. 32273).
Ed ancora, sulla stessa linea interpretativa tracciata dalle Sezioni Unite, è Cass., II, 5.10.2011, n.39756, Ciancimino, secondo cui “l’estinzione del reato preclude la confisca, prevista come obbligatoria dall’art. 240, comma secondo, n. 1, cod. pen., delle cose che ne costituiscono il prezzo, assumendo la condanna il valore di una pronuncia attestante la sussistenza del reato e della relativa responsabilità”. Ed invero, “ciò che viene posto a fulcro della disciplina codicistica, non è il rinvio ad un concetto di “condanna” evocativo della categoria del giudicato formale (il caso trattato è quello della estinzione del reato, per prescrizione, verificatasi dopo il II grado) ma – più concretamente – il richiamo ad un termine che intende esprimere un valore di equivalenza rispetto all’accertamento definitivo del reato, della responsabilità e del nesso di “pertinenzialità” che i beni oggetto di confisca devono presentare rispetto al reato stesso: a prescindere, evidentemente, dalla “formula” con la quale il giudizio viene ad essere formalmente definito”.
Quest’ultimo arresto giurisprudenziale appare di notevole interesse perché, pur escludendo l’applicazione della confisca in presenza di una causa di estinzione del reato, ne ammette la possibilità quando il giudice di merito “accerti sostanzialmente” il reato ed i presupposti soggettivi ed oggettivi della confisca.
Va ancora ricordato che la confisca obbligatoria, come anche quella facoltativa, per espressa volontà del legislatore (art. 236 c.p.) ha natura di misura di sicurezza patrimoniale, sicché, all’istituto della confisca generale, è applicabile la disciplina di cui agli artt. 199 e ss c.p., con conseguente applicazione retroattiva della stessa. In tal senso è la giurisprudenza dominate e la dottrina prevalente, in seno alla quale non mancano, però, voci contrarie.
Epperò, va detto che, nell’ambito del dialogo interpretativo fra la C. EDU, Corte di Giustizia Europea e le Corti nazionali (Costituzionale e Cassazione), è possibile tracciare a livello dommatico (categorie) la confisca generale.
Essa si distingue:
– confisca generale ordinaria (art. 240 c.p.); confisca allargata (12 sexies d.l. 306/92); confisca di valore o per equivalente (322 ter, 640 quater c.p.; 12 sexies, comma 2-ter; di prevenzione per equivalente (art. 25 del codice antimafia n. 159/2011); confisca come misura di prevenzione patrimoniale.
Dunque quattro categorie assolutamente eterogenee per natura, forma e sostanza (si veda sul punto il dialogo interpretativo fra le Corti e la produzione giurisprudenziale più importate sulla natura delle stesse).
4. Qualche spunto di riflessione merita, ciò perché la sentenza in commento ne fa menzione, la confisca ambientale.
Si tratta di un’ ipotesi di confisca obbligatoria speciale.
Il fondamento normativo di detta confisca è da rinvenirsi essenzialmente negli artt. 256, comma 3 e 259 T.U. Ambientale (152/06).
Per ciò che interessa la natura, giurisprudenza e dottrina, monocorde, definiscono tale confisca come misura di sicurezza patrimoniale, con la conseguente possibile applicazione retroattiva della stessa.
Epperò, la sentenza in commento, ne traccia un inquadramento dommatico, a parere di chi scrive, diverso.
Sembra che la Corte ragioni nel senso di una definizione “puramente sanzionatoria”, attribuendone, dunque, un significato di sanzione penale.
Secondo la Corte, la confisca ambientale “è una forma di rappresaglia legale nei confronti dell’autore del reato e mira a colpirlo nei suoi beni”.
A ben vedere, detta confisca assume la funzione tipica della pena: cioè special-preventiva e general-preventiva.
E ciò al pari della confisca per equivalente che come ricordato ne assume la stessa funzione repressiva (sul punto giurisprudenza della Corte di Strasburgo e delle Sezioni Unite è monocorde).
In tal ottica, la Corte fa un ulteriore passaggio argomentativo in merito alla pericolosità oggettiva e soggettiva dei beni da confiscare.
Escludendone l’oggettiva pericolosità del terreno adibito a discarica abusiva e dei mezzi di trasporto dei rifiuti e richiamandosi al precedente pronunciato (Sez. III, 7.7.2009, n. 36063, P.M. in proc. Renna), la Corte chiude il “circolo ermeneutico” affermando a chiare lettere che tali beni non rientrano tra le ipotesi di confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 240, comma 2, n.2, c.p.; dando piena applicazione alla sentenza della Sezioni Unite, 9.07.2004, n. 29951, Focarelli, che in diritto schematizza la portata applicativa dell’art. 240 c.p.
SENTENZA
Autorità: Cassazione penale sez. III
Data udienza: 29 febbraio 2012
Numero: n. 18774
INTESTAZIONE
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNINO Saverio – Presidente –
Dott. TERESI Alfredo – Consigliere –
Dott. FRANCO Amedeo – est. Consigliere –
Dott. MULLIRI Guicla – Consigliere –
Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Orvieto;
avverso il decreto penale di condanna per il reato di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 256, comma 1, lett. a), emesso il 14 giugno 2011 dal Gip del tribunale di Orvieto nei confronti di S.S. F. e T.C., e del conseguente provvedimento in data 18 giugno 2011 di restituzione dell’automezzo sequestrato;
udita nella udienza in camera di consiglio del 29 febbraio 2012 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. MAZZOTTA Gabriele, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
FATTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 21.2.2011 il pubblico ministero di Orvieto chiese al Gip l’emissione, nei confronti di S.S.F. e T. C., di decreto penale di condanna per Euro 1.500,00 ciascuno in ordine al reato di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 256, comma 1, lett. a), nonchè la confisca del mezzo di trasporto in sequestro.In data 14 giugno 2011 il Gip emise il richiesto decreto penale senza disporre la confisca. Con provvedimento del 18.6.2011 il Gip dispose poi la revoca del sequestro dell’automezzo in questione e la sua restituzione all’avente diritto.Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Orvieto propone ricorso per cassazione contro entrambi i suddetti provvedimenti, deducendo che si tratta di provvedimenti abnormi perchè emessi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste. In particolare, deduce:1) violazione dell’art. 459 cod. proc. pen., perchè, in caso di non accoglimento della richiesta di decreto penale di condanna, il GIP deve restituire gli atti al PM ovvero pronunziare sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen.. Nella specie, era stata espressamente richiesta anche la confisca del mezzo utilizzato per il trasporto illecito dei rifiuti. Pertanto il Gip, se riteneva di seguire il prevalente indirizzo di questa Corte – secondo cui la confisca obbligatoria prevista dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 259, comma 2, nel caso di sentenza di condanna o di patteggiamento, non può essere disposta con il decreto penale di condanna – avrebbe dovuto restituire gli atti al PM poichè si era in presenza di una confisca obbligatoria. Quindi i due provvedimenti tra loro collegati sono abnormi perchè rendono impossibile una confisca che è prevista come obbligatoria dal citato art. 259, comma 2. Inoltre, l’obbligo di restituzione degli atti al PM in caso di non accoglimento della richiesta, non è limitato alla quantificazione della pena ma riguarda tutto l’iter procedurale. Il PM, quando le sue richieste non siano state recepite in toto, non può proporre opposizione e, poichè si tratta di confisca obbligatoria, il Gip non può disporre il dissequestro e la restituzione del bene ma deve restituire gli atti al PM affinchè attivi il procedimento ordinario.2) violazione del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 259. Osserva che la confisca obbligatoria ivi prevista non è completamente autonoma dalla disciplina generale dell’art. 240 cod. pen.. Tale confisca, comunque, si può considerare quale misura di carattere sanzionatorio, non inquadrabile tra le misure di sicurezza, con funzione eminentemente repressiva e non preventiva. Essa è quindi compatibile con il rito prescelto, non costituendo una misura di sicurezza patrimoniale. La confisca è applicabile anche con il decreto penale di condanna, che costituisce sempre una sentenza di condanna, in cui il contraddittorio è posticipato. Il dato testuale dell’art. 259 non è indicativo, sia che si consideri la confisca come sanzione e non misura di sicurezza sia che la si ritenga tale ed equiparata alla confisca obbligatoria. Il ricorrente osserva inoltre che, per i reati ambientali, la sanzione più penetrante e punitiva è proprio quella della confisca del veicolo; peraltro, esistono casi in cui il trasporto dei rifiuti non ha connotati particolarmente gravi nei quali, anche per rispetto del principio di ragionevole durata del processo e della funzione rieducativa della pena, è opportuno utilizzare un procedimento alternativo rapido ed efficace.Del resto, se il soggetto propone opposizione la confisca sarebbe irrogatale con la susseguente sentenza di condanna. Rileva infine che queste considerazioni attengono alla ritenuta regolarità del comportamento della procura e non alla abnormità del provvedimento, la quale deriva dal fatto che il Gip avrebbe dovuto restituire gli atti al PM e non emettere decreto penale di condanna, depauperato dalla richiesta di confisca del mezzo. Analogamente abnorme è il successivo e collegato provvedimento di dissequestro perchè rende inutile l’art. 259, comma 2, cit. e viola l’art. 459 cod. proc. pen. essendo in contrasto con la richiesta del PM. Chiede infine la rimessione alle sezioni unite della questione pregiudiziale sulla possibilità di disporre con decreto penale la confisca del veicolo ai sensi dell’art. 259 cit.
DIRITTO MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il secondo motivo il ricorrente sembra dedurre la illegittimità dei provvedimenti impugnati, perchè la confisca del mezzo di trasporto prevista obbligatoriamente dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 259, comma 2, nel caso sentenza di condanna o di patteggiamento dovrebbe essere adottata anche nel caso di decreto penale di condanna, sia che la si qualifichi come sanzione sia che la si qualifichi come misura di sicurezza. Rileva il ricorrente che la disciplina di tale confisca non è del tutto autonoma da quella generale dell’art. 240 cod. pen. e comunque è compatibile con il procedimento per decreto perchè non costituisce una misura di sicurezza patrimoniale ma ha funzione precipuamente repressiva. La detta confisca è inoltre applicabile anche con il decreto penale, perchè questo costituisce pur sempre una sentenza di condanna, in cui il con-traddittorio è posticipato.Nel ricorso si afferma peraltro esplicitamente che le suddette considerazioni riguardano la regolarità del comportamento della Procura della Repubblica e non l’abnormità del provvedimento impugnato. Tuttavia, subito dopo si chiede la rimessione alle Sezioni Unite della questione concernente la possibilità di disporre con decreto penale la confisca del veicolo ai sensi dell’art. 259 cit. Nonostante queste perplessità, può ritenersi che il ricorrente abbia inteso proporre ricorso per cassazione contro il decreto penale anche perchè ritenuto illegittimo per la ragione indicata. E difatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “Anche in assenza di una disposizione specifica, deve ritenersi consentito al P.M. di ricorrere per cassazione contro il decreto penale di condanna in base alla previsione dell’art. 111 Cost.” (Sez. 3^, 22.5.2007, n. 23710, P.M. in proc. Lotito, m. 237395, in un caso di omessa applicazione dell’ordine di demolizione); “Il decreto penale di condanna è assimilato alla sentenza di condanna ed è pertanto ammissibile avverso lo stesso il ricorso per cassazione del pubblico ministero, purchè al momento della presentazione dell’impugnazione il suddetto decreto non sia già divenuto irrevocabile ovvero sia stato opposto dall’imputato. (Fattispecie in tema di ricorso presentato per l’omessa applicazione con il decreto della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente)” (Sez. 4^, 13.2.2008, n. 11358, P.M. in proc. Tsokov, m. 238939).Inteso quindi il secondo motivo come impugnazione del decreto penale ex art. 111 Cost., per avere omesso di disporre la confisca del veicolo, ex art. 259 cit., il motivo stesso deve ritenersi manifestamente infondato. Esso infatti si limita a contestare la recente ed ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte – espressa dalle sentenze Sez. 3^, 22.5.2008, n. 26548, Mazzucato, m.240343; Sez. 3^, 19.3.2009, n. 24659, Mongardi, m. 244019; Sez. 3^, 7.7.2009, n. 36063, P.M. in proc. Renna, m. 244607 – senza peraltro proporre considerazioni diverse da quelle già ampiamente esaminate e disattese dalle dette decisioni e senza confutare tutte le argomentazioni su cui tali decisioni si fondano.A tali decisioni pertanto si fa qui integrale richiamo, ricordando soltanto che le prime due decisioni – relative alla confisca del terreno per il reato di gestione di discarica abusiva di cui all’art. 256, comma 3, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ma fondate su argomentazioni valevoli anche per la confisca del veicolo per il reato di trasporto illecito ex art. 259, comma 2 – hanno rilevato che le dette disposizioni contemplano quali provvedimenti ai quali consegue la confisca obbligatoria dell’area adibita a discarica abusiva o del veicolo utilizzato per il trasporto illecito esclusivamente la sentenza di condanna e quella di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. e non anche il decreto penale di condanna. Corrispondentemente, l’art. 460 cod. proc. pen., comma 2, dispone che con il decreto di condanna il giudice ordina la confisca nei casi previsti dall’art. 240 cod. pen., comma 2, e, quindi, escludendo implicitamente le ipotesi in cui la confisca sia prevista come obbligatoria da altre disposizioni di legge.Per estendere la possibilità di confisca anche al decreto penale sono possibili due percorsi: a) o si ritiene che l’art. 460 cod. proc. pen. si applichi a tutti i casi di confisca obbligatoria, ossia si estende analogicamente questa disposizione fino a farle comprendere non solo la confisca obbligatoria nei casi dell’art. 240 cod. pen.,, comma 2, ma altresì i casi in cui la obbligatorietà della confisca sia stabilita da leggi speciali; b) o si ritiene che le citate disposizioni del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, si applichino in via analogica oltre che alla sentenza di condanna ed a quella di patteggiamento, anche alla ipotesi del decreto penale di condanna.Sennonchè entrambi questi percorsi sono preclusi dal divieto di analogia previsto dall’art. 14 preleggi, che concerne sicuramente anche una misura ablativa di diritti patrimoniali come la confisca.Nè sarebbe possibile una interpretazione estensiva degli artt. 256 e 259 cit., nel senso di includervi anche l’ipotesi del decreto penale.Queste disposizioni, infatti, non si riferiscono genericamente alla “condanna”, ossia non descrivono il contenuto della decisione, ma si riferiscono esplicitamente alla sua struttura, specificando che si deve trattare di “sentenza di condanna o di patteggiamento”. Il legislatore ha dunque utilizzato un termine specifico e non un termine di genere (“condanna”) che ricomprenda varie ipotesi di specie (condanna a seguito di sentenza; a seguito di decreto, a seguito di patteggiamento). Ma intendere la species come genus significherebbe propriamente fare applicazione analogica di una norma ad una fattispecie diversa in virtù dell’identità di ratio.Inoltre, in senso contrario alla possibilità di applicazione della confisca con il decreto penale, opera anche il criterio sistematico.Invero, l’art. 460 cod. proc. pen. e il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, artt. 256 e 259, sono in coordinazione tra loro: il primo esclude che il decreto si estenda alle confische obbligatorie previste da leggi speciali e gli altri due (che prevedono un confisca obbligatoria speciale) escludono proprio il decreto penale. Vi è quindi una rispondenza tra le disposizioni, nel senso della volontà del legislatore di escludere l’applicazione della confisca obbligatoria, allorchè il procedimento penale venga definito mediante decreto penale di condanna.L’opinione opposta ritiene che vi sia una equivalenza biunivoca tra confisca obbligatoria ex art. 240 cod. pen., comma 2, e confische obbligatorie previste da leggi speciali, nel senso che dove si parla di confisca ex art. 240 cod. pen., comma 2, si dovrebbero intendervi ricomprese anche le confische obbligatorie speciali e viceversa.Invece questa equivalenza non c’è. E difatti la giurisprudenza di questa Corte l’ha sempre esclusa, affermando costantemente (cfr. Sez. Un., 15.12.1992, n. 1811/93, Bissoli, m. 192494; Sez. Un., 25.3.1993, n. 5, Carl, m. 193120; e più recentemente Sez. Ili, 11.1.2005, n. 2949, Gazziero, m. 230868) che le misure di sicurezza patrimoniale previste come obbligatorie da leggi speciali, nel caso di condanna dell’imputato, non sono equiparabili a quella di cui all’art. 240 cod. pen., comma 2, avente ad oggetto il prezzo del reato ovvero le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, sicchè la previsione della applicabilità della misura di sicurezza patrimoniale ex art. 240 cod. pen., comma 2, non è estensibile ad altre ipotesi di confisca obbligatoria previste da leggi speciali, al di fuori dei casi in cui la stessa legge speciale la consente.La confisca ex art. 240 cod. pen., comma 2, è generale, e proprio per questo la disposizione non distingue tra sentenza di condanna, patteggiamento e decreto penale (ricomprendendo quindi anche quest’ultimo) combaciando con l’art. 460 cod. proc. pen. che prevede appunto la confisca obbligatoria ex art. 240 cod. pen., comma 2, nel caso di decreto penale.La confisca ex artt. 256 e 259 cit. è invece speciale e rientra appunto fra le confische obbligatorie speciali, nelle quali la specialità può consistere o nell’estendere l’oggetto della confisca obbligatoria o nello specificare i casi e le condizioni in cui essa è possibile.A sostegno dell’orientamento qui seguito sta infine anche il criterio della ratio legis. La confisca D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ex artt. 256 e 259, ha chiaramente una funzione sanzionatoria, è una forma di rappresaglia legale nei confronti dell’autore del reato e mira a colpirlo nei suoi beni. In questa ottica è ben comprensibile che il legislatore voglia specificare, con una valutazione legale tipica, i casi in cui tale sanzione aggiuntiva a volte molto più pesante della sanzione penale principale (come espressamente riconosce lo stesso ricorrente) iH debba obbligatoriamente intervenire. Ed è razionale pensare che il legislatore abbia voluto escluderla nei casi di decreto penale, tipicamente meno gravi. Sarebbe infatti irrazionale consentire una forte mitigazione di pena ed imporre nel contempo una misura tanto radicale. Nella strategia sanzionatoria e deterrente del legislatore, pertanto, decreto penale ed esclusione della confisca appaiono in sintonia.Va anche ricordato che la sentenza delle Sez. Un., 24.5.2004, n. 29951, Focarelli ha distinto fra: a) confisca di cose aventi di per sè natura intrinsecamente ed oggettivamente pericolosa, come quella prevista dall’art. 240 cod. pen., comma 2, n. 2, (cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato), o da leggi speciali che in modo analogo impongono la confisca di altre cose anch’esse intrinsecamente pericolose; in queste ipotesi la confisca è prevista perchè si tratta di cosa pericolosa in re ipsa, che non può essere lasciata nella disponibilità di privati e pertanto assolve ad una “esigenza preventiva di inibire l’utilizzazione di un bene intrinsecamente ed oggettivamente “pericoloso”, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato”; b) confisca di una cosa che non è in sè intrinsecamente ed oggettivamente pericolosa, ma la cui pericolosità deriva dal collegamento con il reo o con un determinato reato (come quella delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o delle cose che ne sono il prodotto o il profitto, prevista dall’art. 240 cod. pen., comma 1). In questo caso la confisca ha finalità socialpreventiva e, per certi versi, retribuiva, mirando, da un lato, a privare il reo del frutto e dei vantaggi del reato e, dall’altro, a sottrargli risorse potenzialmente utilizzabili in ulteriori attività delittuose.E’ evidente che nel primo tipo di confisca è la natura intrinsecamente ed oggettivamente pericolosa della cosa in sè che determina il carattere obbligatorio della confisca, e non è già la natura obbligatoria della confisca che determina la pericolosità intrinseca ed oggettiva della cosa. Il fatto che il legislatore, per motivi di politica criminale, possa attribuire natura obbligatoria alla confisca di cose che non sono in sè intrinsecamente ed oggettivamente pericolose non può valere pertanto a conferire alla cosa in sè una natura intrinsecamente pericolosa che non ha e nemmeno può valere a far rientrare questo tipo di confisca nelle confische appartenenti alla prima delle due indicate categorie, a pena di stravolgere il carattere unitario di questa prima categoria e di rendere evanescente la stessa ratio che la distingue dall’altra (cfr. Sez. 3^, 2.2.2007, n. 20443, Sorrentino).Ora, non vi è dubbio che il terreno utilizzato per una discarica abusiva e l’automezzo utilizzato per un trasporto illecito di rifiuti non rientrano tra le ipotesi di cose aventi natura intrinsecamente ed oggettivamente pericolosa, che devono necessariamente essere acquisite dallo Stato e di cui va inibita l’utilizzazione da parte del privato, ossia tra le ipotesi di confisca obbligatoria generale di cui all’art. 240 cod. pen., comma 2.Le suddette considerazioni e conclusioni sono state condivise dalla sentenza Sez. 3^, 7.7.2009, n. 36063, P.M. in proc. Renna, m. 244607, con specifico riferimento alla confisca, di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 259, comma 2, del mezzo utilizzato per il trasporto illecito di rifiuti.Con il primo motivo il ricorrente deduce l’abnormità dei provvedimenti impugnati in sostanza per la ragione che si era in presenza di una confisca obbligatoria e che il provvedimento del Gip rende impossibile tale confisca obbligatoria. Inoltre il Gip, avendo ritenuto di non accogliere in toto la richiesta, avrebbe dovuto restituire gli atti al PM. Anche questo motivo è manifestamente infondato perchè il decreto penale di condanna impugnato non presenta i caratteri della abnormità.Il motivo si fonda, essenzialmente, sul presupposto che la confisca in questione avrebbe carattere obbligatorio e quindi il provvedimento impugnato avrebbe reso impossibile una confisca obbligatoria. Come si è già dianzi evidenziato, l’assunto è chiaramente infondato perchè, in realtà, non si tratta di confisca obbligatoria di per sè, ma soltanto quando sia emessa sentenza di condanna e di patteggiamento e non anche nel caso di decreto penale di condanna.Non può quindi confondersi tra “obbligatorietà” della confisca prevista dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 259, comma 2, e la confisca “obbligatoria” di cui all’art. 240 cod. pen., comma 2, che riguarda beni intrinsecamente ed oggettivamente pericolosi. Il Gip, pertanto, non ha reso impossibile una confisca obbligatoria ma ha doverosamente omesso di emanare col decreto penale una statuizione di confisca, che sarebbe stata illegittima e non consentita. La confisca non era obbligatoria proprio perchè era stata scelta la via del decreto penale di condanna.In ogni caso, non si tratta di provvedimento che si colloca al di fuori dell’ordinamento e della struttura del sistema processuale, perchè esso rientra nei poteri del giudice che lo ha adottato ed è, quindi, espressione e risultato di un potere riconosciuto ed attribuito dalla legge. Nella specie, peraltro, questo potere è stato esercitato correttamente e legittimamente, essendo il provvedimento del Gip pienamente conforme al dettato legislativo. E nemmeno si è determinata una stasi del procedimento e una impossibilità di proseguirlo. Il procedimento è infatti proseguito e la fase in questione si è regolarmente conclusa con l’emissione del decreto di condanna senza la non consentita confisca del mezzo di trasporto.Nè può ritenersi che il Gip avrebbe dovuto restituire gli atti al PM non avendo accolto la richiesta di disporre la confisca (erroneamente ritenuta obbligatoria). Il Gip, infatti, ha in realtà pienamente accolto la richiesta di emissione del decreto penale di condanna avanzata dal PM. Ha solo omesso, esattamente, di accogliere una richiesta accessoria e secondaria, la cui illegittimità, vertendo su un aspetto non essenziale, non poteva inficiare il vero contenuto della richiesta stessa, ossia l’emissione di un decreto di condanna per il reato contestato e per la pena indicata.D’altra parte, il pubblico ministero, se avesse inteso ottenere l’applicazione della confisca dell’automezzo, avrebbe potuto procedere con il rito ordinario (cfr. Sez. 4^, 13.12.2005, n. 3417, P.G. in proc. Kardhashi, m. 233243). Nè il principio della ragionevole durata del processo o quello della funzione rieducativa della pena – entrambi invocati dal ricorrente – potrebbero giustificare l’applicazione di una misura ablativa di un diritto costituzionale in una ipotesi non consentita dalla legge, tanto più in un caso che, come espressamente si riconosce nel ricorso, non assumeva connotati particolarmente gravi, tanto da far ritenere sufficiente la sola sanzione pecuniaria.In conclusione, i provvedimenti impugnati non presentano t caratteri della abnormità.Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara inammissibile il ricorso del PM. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 29 febbraio 2012.Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2012
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