SOMMARIO: 1. La valutazione del futuro con gli strumenti del presente; 2. Il nocciolo della questione; 3. Tesi e antitesi del percorso giustificativo; 4. Il diritto di difesa nel procedimento di prevenzione: lo sguardo della Consulta; 5. Il codice antimafia tra testo ricognitivo e testo giurisprudenziale.
Vedo che sull’orologio sono le undici di sera. Dov’è qui il tempo? Sta nell’orologio? Si dice: il tempo viene esperito nel movimento delle lancette dell’orologio. Ma com’è allora, se l’orologio si è arrestato? Anche in tal caso, con l’arrestarsi dell’orologio, il tempo non è affatto svanito. Solo, non posso dire più che ora è.
ne
“Il concetto di tempo”
di Martin Heidegger
1. La valutazione del futuro con gli strumenti del presente.
Il pensiero del grande filosofo del ‘900 può rappresentare, dunque, un punto di riferimento quando debba intendersi il presente, che è al contempo il metro di valutazione del futuro.
Vero è che il giudice può prevedere il futuro, attraverso lo strumento delle norme (l’orologio di Heidegger) presenti; vero è che quando l’orologio (le norme) si è arrestato, il Giudice non può più stabilire il presente, quindi fare previsioni per il futuro.
Ed è in tal contesto che nasce l’ordinanza in commento, che vede protagonista la figura del giudice paragnosta.
Il tema è molto semplice ed è quello della compatibilità della misura di prevenzione personale con lo stato di detenzione perenne, perché determinato dalla pena dell’ergastolo.
Sennonché, la semplicità del tema, che nel caso di specie porrebbe all’uomo medio l’interrogativo sul come sia possibile l’applicazione, dunque la compatibilità della misura della sorveglianza speciale dell’obbligo di soggiorno all’ergastolano, ha dato luogo alla complicata giurisprudenza della Suprema Corte che in buona sostanza da il lascia passare ai giudici di merito all’applicazione della misura di p.s.
Per converso, a fronte di ciò, il Tribunale di S. Maria C.V., con l’ordinanza in commento, porta il caso pratico all’attenzione della Consulta.
2. Il nocciolo della questione.
È noto l’orientamento della Suprema Corte che dal 1993, con la sentenza n. 6 del 25.3.1993, Tuminelli, (in Cass. Pen., 1993, p.2491) fin ai giorni nostri (Cass.,I, 22.09.2000, n.5221, Ignazzi e altro, Cass., 1.12. 2000, n.6996, in Cass. Pen., 2001, p. 3528), vuole e legittima la piena “compatibilità” delle misure di prevenzione (personali e patrimoniali) con la pena perpetua dell’ergastolo.
L’impostazione del ricordato orientamento ha come base di riferimento le norme che disciplinano il sistema cautelare personale previsto dal codice di procedura penale. Dunque, come per le misure cautelari personali, anche le misure di prevenzione si caratterizzano di due momenti (struttura bifasica):
1) il momento dell’applicazione che è coevo all’affermazione della pericolosità sociale del proposto;
2) il momento dell’esecuzione che coincide con l’effettiva sottoposizione del proposto agli obblighi nascenti dalla misura personale applicata. Quest’ultimo momento, per le misure di prevenzione, atteso il dettato legislativo, coincide con la riacquistata libertà, dunque con la cessazione dello stato di detenzione.
Indi, in presenza di uno stato detentivo (anche perenne) la Suprema Corte di Cassazione (Sezioni Unite 1993) argomenta per una esecuzione differita della stessa misura di prevenzione personale.
Ancora, osserva la giurisprudenza prevalente, che è ben possibile l’esecuzione differita della sorveglianza speciale essendo prognosticabile (perché previsto dal codice penale e dall’ordinamento penitenziario) che il sottoposto alla pena perpetua possa ricevere i benefici penitenziari: la liberazione anticipata.
A fronte della ricordata impostazione giurisprudenziale v’era (e v’è) un orientamento della dottrina che, in buona sostanza, ne evidenziava (e ne evidenzia) in primis la frattura logica sistematica (l‘argomentare delle S.U. era incentrato solo su criteri normativi e logico sistematici che, in concreto, non soddisfavano, perché asfitticamente rivolti esclusivamente all’interno del solo sottosistema prevenzionale), ed in secundis la valenza costituzionale di siffatta “opzione ermeneutica” che con la esecuzione differita minava (e mina) grandemente gli artt. 3 e 24 della Costituzione, nonchè la funzione di emenda della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost.
C’era, inoltre, chi vedeva in tale scelta delle Sezioni Unite una mera operazione di politica criminale.
L’impostazione della dottrina veniva recepita dalla giurisprudenza minoritaria dell’epoca secondo la quale “nei confronti di una persona definitivamente condannata all’ergastolo non può essere disposta l’applicazione di una misura di prevenzione, neppure con la riserva del differimento della effettiva esecuzione della stessa al momento (peraltro incerto nell’an e nel quando) della cessazione della espiazione della pena” (Cfr. Cass.,Sez I, 9.3.1992, Franchina, in Cass. Pen., 1993, pag. 1216; nonché Tribunale di Napoli, Decreto 26.06.1996, Pres. Gialanella, Est. Lomonte-D’Agostino, in Critica del diritto, 1997, pagg. 174 e ss. con nota di S. MONTONE). Di recente, la Suprema Corte, I sezione, ha fatto proprio l’insegnamento della dottrina con la sentenza n. 44151 del 5.11.2003 che così risolve la questione: “in costanza di espiazione di pena conseguente a condanna definitiva, la misura di prevenzione non può essere disposta se non si acquista la prova certa che la formazione di risocializzazione propria del trattamento penitenziario non ha esercitato alcun effetto sul condannato, nè ha eliminato la sua pericolosità sociale; è compito del giudice di merito procedere ai necessari accertamenti, in quanto non si può far luogo a misura di prevenzione se la pericolosità sociale non sia sussistente al momento della formulazione del giudizio”(in Cass. Pen., 2005, 10, 3077, nota contraria di P.V. MOLINARI).
In buona sostanza, con riferimento alla specifica ipotesi della persona condannata all’ergastolo in via definitiva, la stessa eventuale liberazione condizionale, presupponendo, dunque, il sicuro ravvedimento del condannato, renderà impossibile il giudizio di attualità della pericolosità, necessario, a ben vedere, per la legittima applicazione delle misure di prevenzione. Del resto, osservava la dottrina, lo stesso istituto della grazia è concedibile a patto che fosse non persistente la pericolosità sociale dell’ergastolano.
Orbene, proprio sotto il secondo profilo evidenziato dalla dottrina, nasce (e forse muore) l’ordinanza sammaritana nella parte in cui fa questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 legge 1423/1956 (attuale art. 15 T.U. antimafia) in relazione agli artt. 3, comma 1, e 24 della Costituzione.
3. Tesi e antitesi del percorso giustificativo.
La tesi sostenuta è quella della mancanza di un potere-dovere in capo al Giudice della prevenzione di rivalutare, ex officio, la pericolosità sociale del proposto nel momento in cui lo stesso è in libertà.
Il percorso giustificativo della questione di legittimità costituzionale è tutto incentrato sul rapporto tra le misure di prevenzione e le norme che disciplinano le misure di sicurezza.
L’attenzione, a giudizio del Tribunale, è rivolta all’applicazione dell’art. 679 del c.p.p.; norma che secondo il Giudice rimettente non troverebbe omologa rappresentazione nell’art. 12 legge 1423/1956 (attuale art. 15 T.U. antimafia).
Il testo dell’art. 679 c.p.p. è chiaro: “Quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti nell’articolo 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente [658], il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato. Provvede altresì, su richiesta del pubblico ministero, dell’interessato, del suo difensore o di ufficio, su ogni questione relativa nonché sulla revoca della dichiarazione di tendenza a delinquere.”
Letto il testo, da subito si comprende l’impostazione dell’ordinanza di rimessione che, come detto, è incentrato sulla mancanza di un potere-doverein capo al giudice della prevenzione dello stesso tipo riconosciuto dall’ art. 679 c.p.p. al magistrato di sorveglianza, non essendo sufficiente, a tal uopo, il vecchio art. 7 della legge 1423/1956 (peraltro applicabile alla sola fase esecutiva del decreto).
Ed invero, detto articolo riconosce al giudice, solo su iniziativa delle parti (e non ex officio), la possibile rivalutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione. Di talchè, la violazione dell’art. 3 e dell’art. 24 della Carta fondamentale.
In sintesi, l’art. 3, comma 1, Cost. sarebbe violato perché vi sarebbe una disparità di trattamento tra situazioni di fatto sostanzialmente analoghe (pagg. 8 e 9 dell‘ordinanza):
– le misure di prevenzione e le misure di sicurezza assolvono alla stessa funzione, che è quella di impedire la commissione di reati da parte del destinatario ed eliminarne la pericolosità sociale;
– anche le misure di prevenzione (sul punto cfr. giurisprudenza di legittimità, costituzionale e C. EDU), appartengono al più ampio genere delle misure di sicurezza (e non nel genere delle pene); da ciò discende l’applicazione dell’art. 200 del c.p.;
– entrambe le misure hanno come presupposto l’attualità della pericolosità sociale.
Sicché, per il Tribunale […] “appare irragionevole e contrario al principio di uguaglianza riservare un diverso trattamento in sede di esecuzione ai destinatari delle misure di prevenzione, rispetto ai destinatari delle misure di sicurezza […]”.
L’art. 24 sarebbe altrimenti violato (pag. 10 dell‘ordinanza) perché:
– la facoltà riconosciuta all’interessato di promuovere, in fase esecutiva, l’istanza di revoca della misura di prevenzione ove venga meno la sua pericolosità, ex art. 7 (ora art. 11 T.U. antimafia), considerati anche gli oneri economici ed i tempi connessi alla relativa procedura, non è equiparabile alla garanzia di una verifica ex officio.
Dunque, conclude il Tribunale, che trasferire l’onere di promuovere il procedimento volto ad ottenere l’accertamento della sopravvenuta cessazione della pericolosità, nel caso di specie, diversamente da quanto accade per le misure di sicurezza, appare in contrasto anche con le garanzie sancite dall’art. 24 Cost.
La antitesi.
Posta l’esistenza della giurisprudenza costituzionale in merito all’obbligo di verifica preliminare del giudice a quo della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base del dubbio di costituzionalità prospettato che può sanare qualsiasi contrasto tra norma costituzionale e norma ordinaria (ex plurimis, sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 110 del 2010, n. 338 e n. 171 del 2009, n. 32 del 2007 e n. 34 del 2006) in assenza della quale la questione è inammissibile, poche parole vanno dette della eventuale antitesi sulla quale la Corte Costituzionale può ragionare.
La antitesi può avere come base dogmatica il presupposto della diversità formale ed sostanziale della misura di sicurezza rispetto a quella di prevenzione.
A leggere il testo dell’art. 679 c.p.p., non possono non mettersi in luce le differenze di forma e sostanza tra le misure di prevenzione e quelle di sicurezza.
La prima differenza che da subito salta agli occhi è che le misure di sicurezza, diverse dalla confisca, sono ordinate o applicate con sentenza (di condanna o proscioglimento per infermità) alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato.
A ben vedere, anche l’art. 203 c.p. pone un’ulteriore differenza di sostanza, perchè definisce socialmente pericolosa la persona, la quale ha commesso un fatto previsto dalla legge come reato. Nondimeno, tale articolo subordina l’accertamento di detta pericolosità alla probabilità che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reato.
Dunque, in sintesi, le misure di sicurezza sono applicate ed ordinate con sentenza che si può definire come l’atto finale di un processo tipizzato dal principio di legalità, dalle regole del dibattimento e dalla pienezza del contraddittorio, nonché dagli ordinari mezzi di impugnazione.
Nondimeno, la pericolosità sociale, come è stato affermato dalla giurisprudenza ed ammesso dalla stessa dottrina, tipica della misura di sicurezza, è sostanzialmente diversa da quella legittimante l’applicazione della misura di prevenzione.
La giurisprudenza declina il concetto nei termini seguenti: la pericolosità è una qualità, un modo di essere del soggetto, da cui si deduce la probabilità che egli commetta nuovi reati. Essa si differenzia dalla capacità criminale, che esiste sempre in misura più o meno accentuata, per il fatto stesso che il soggetto ha già commesso il reato e costituisce quindi un’ attitudine soggettiva alla commissione di ulteriori reati dello stesso tipo. La capacità criminale è quindi il genus e la pericolosità la species, poiché la prima è solo possibilità, mentre la seconda è probabilità di compiere illeciti penali. La pericolosità coincide solo con la dimensione prognostico-preventiva della capacità criminale ma non con quella etico-retributiva della medesima (Cass., II, 5.6.1990, n. 9572 , Aresu, CED).
Essa si differenzia dalla pericolosità sociale rilevante ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione: la pericolosità cui fa riferimento l’art. 3 della L. 27 dicembre 1956, n. 1423 è quella sociale in senso lato, comprendente cioè, da una parte la semplice immoralità non costituente reato, dall’altra l’accertata predisposizione al delitto o la presunta vita delittuosa di una persona nei cui confronti non sia raggiunta una prova sicura di reità per un delitto.
Tale pericolosità, infatti, a differenza di quella richiesta dall’art. 202 c.p. per l’applicazione di una misura di sicurezza, non è necessariamente collegata ad una affermazione di colpevolezza per reato, ma si ricava dall’esame dell’intera personalità del soggetto e da situazioni che giustificano sospetti o presunzioni, purché gli uni e le altre appaiano fondati su elementi obiettivi e su fatti specifici ed accertati, quali la compagnia di pregiudicati, l’omertà, la mancanza di uno stabile lavoro, il tenore di vita superiore alle proprie possibilità economiche, le denunzie per delitti anche colposi.
Come affermato, costantemente dalla giurisprudenza, la misura di prevenzione può essere applicata anche in presenza di una sentenza di assoluzione.
In buona sostanza, il procedimento ex art. 679 c.p.p. è strettamente connesso al processo penale di cognizione, dipendendo da esso per ciò che interessa l’accertamento del fatto reato e della pericolosità sociale.
Ciò che invece non è a dirsi per le misure di prevenzione.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 275 del 1996, ha già affermato che «devono essere sottolineate le profonde differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale (e quindi anche quella determinata ex art. 679 c.p.p.) e di prevenzione: la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio dell’azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato». (Conf. Corte Costituzionale, sentenza n. 270 del 2011).
Le misure di prevenzione hanno, inoltre, fini squisitamente ed esclusivamente preventivi; le misure di sicurezza rivestono, accanto a scopi di prevenzione speciale, una funzione peculiare di agevolazione al reinserimento sociale del soggetto nei cui confronti sono applicate; hanno lo scopo non di sanzionare un illecito commesso, bensì di modificare i fattori umani e sociali che hanno portato il soggetto a delinquere. Esse hanno, quindi, come scopo primario, la risocializzazione della persona ed il suo controllo e, proprio per tale motivo, non contrastano con l’art. 27 Cost., non consistendo in trattamenti contrari al senso di umanità ed alla necessità di rieducazione del condannato. Sarebbe proprio tale peculiare finalità risocializzatrice il motivo della prevalenza, accordata dal legislatore, all’esecuzione delle misure di sicurezza rispetto a quelle di prevenzione.
Altresì, sotto un profilo squisitamente procedurale, non può non dirsi che contro i provvedimenti del magistrato di sorveglianza è, ai sensi dell’art. 680 c.p.p., ammesso appello al Tribunale di Sorveglianza, attesa la mancanza nel testo dell’art. 679 c.p.p. della facoltà della difesa di rivolgere istanza al magistrato di sorveglianza per la rivalutazione della pericolosità sociale.
Per converso, tale facoltà è espressamente attribuita al difensore come istanza di revoca alla misura di prevenzione in executivis.
Le differenze sopra riscontrate di forma, sostanza e finalità legittimano, a modesto giudizio di chi scrive, la mancanza in capo giudice della prevenzione, ai sensi dell’art. 12 legge 1423/1956, del potere-dovere di rivalutare ex officio la pericolosità sociale del proposto.
Sicché, appare ragionevole che il legislatore tratti in modo diverso l’esecuzione nel procedimento prevenzione rispetto alla esecuzione delle misure di sicurezza.
Il dubbio di legittimità costituzionale può essere, dunque, in tal senso fugato.
4. Il diritto di difesa nel procedimento di prevenzione: lo sguardo della Consulta.
L’ordinanza in commento fa, inoltre, questione di legittimità costituzionale del ricordato art. 12 legge 1423/1956 in riferimento all’art. 24 della Costituzione, che contempla il diritto di difesa.
Alla pag. 10 si può scorgere l’argomentazione che giustifica l’assunto, che, in buona sostanza, si pone nei termini come sopra (paragrafo 3) evidenziati.
A prescindere dalla validità (qui da intendersi come giustificazione esterna della decisione) dell’assunto, vanno richiamati gli arresti della giurisprudenza costituzionale in merito al diritto di difesa.
Il generico tema del diritto di difesa ha impegnato la giurisprudenza della corte costituzionale, fin dagli anni immediatamente successivi all’approvazione della Costituzione.
Ed invero, come ricorda la Corte (ordinanza n. 125 del 1979) “è del tutto pacifico che tale disposto (art. 24) contiene una norma di carattere generale, intesa a garantire indefettibilmente l’esercizio della difesa in ogni stato e grado di qualunque procedimento giurisdizionale”.
Il generale ambito di applicabilità di questa norma ben venne chiarito nella discussione avanti l’Assemblea Costituente (seduta del 15 aprile 1947).
Dunque, premessa la portata generale della categorica affermazione, nell’art. 24 Cost., del diritto “inviolabile” di difesa, la citata ordinanza ha osservato come manchi, nel testo costituzionale, una specificazione cogente dei modi di esercizio di tale diritto; con la conseguenza che spetta al legislatore, considerate le peculiarità strutturali e funzionali ed i diversi interessi in gioco nei vari stadi e gradi del procedimento, il dettare le concrete modalità.
Al precipuo tema dell’esercizio del diritto di difesa nel procedimento di prevenzione, la giurisprudenza costituzionale ha rimarcato, per un verso, che «il procedimento di prevenzione, il processo penale e il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali» e, per altro verso, che «le forme di esercizio del diritto di difesa [possono] essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione» (sentenza n. 321 del 2004).
In particolare, la Corte muove dall’assunto che l’impossibilità di controllare la congruenza della struttura logica della motivazione (la questione sollevata atteneva all’ impossibile sindacato di cassazione della motivazione del decreto gravato) comporti una ingiustificata contrazione delle garanzie difensive apprestate in un procedimento potenzialmente idoneo, al pari del processo penale, ad incidere sulla libertà personale, e che la disciplina censurata introduca una ingiustificata disparità di trattamento rispetto a quanto previsto per le misure di sicurezza.
Tali rilievi tuttavia si basano sul confronto tra settori direttamente non comparabili, posto che il procedimento di prevenzione, il processo penale e il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali.
D’altra parte è giurisprudenza costante della Corte che le forme di esercizio del diritto di difesa possano essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione (v. tra molte ordinanze n. 352 e n. 132 del 2003).
A ben vedere, l’art. 24 è interpretato dalla Consulta alla luce del principio di proporzionalità rispetto al tipo di procedimento in cui opera l’esercizio del diritto di difesa.
La mente va, ancora, alla sentenza della Consulta n. 21/12 (caso da questo scrivente portato all’attenzione del giudice delle leggi) che proprio per il procedimento di prevenzione argomenta nel senso della ricordata proporzionalità.
Tra le tante questione sollevate in tale sede, di particolare importanza fu quella relativa all’esercizio del diritto di difesa (in capo agli eredi del de cuius) nel procedimento di prevenzione patrimoniale finalizzato alla confisca antimafia. Il precipuo tema era rivolto alla possibilità degli eredi del morto, prima della instaurazione del procedimento patrimoniale, di ricostruire il patrimonio del soggetto (morto) da inquadrare nella categoria criminologica dell’appartenenza ad un organizzazione mafiosa; soprattutto nella ipotesi che l’erede o gli eredi non fossero in vita durante l’arricchimento illecito.
La Corte, con la ricordata sentenza, richiamava, al fine di dichiarare la manifestata infondatezza della questione, i propri arresti giurisprudenziali in tema di esercizio del diritto di difesa, donde decideva nel senso della proporzionalità del diritto di difesa rispetto alle peculiarità del procedimento patrimoniale finalizzato alla confisca (in Dirittopenalecontemporaneo 2012, con nota, non adesiva, di F. MENDITTO).
5. Il codice antimafia tra testo ricognitivo e testo giurisprudenziale.
L’ordinanza da spunto anche per qualche breve riflessione in merito alla introduzione del nuovo Codice Antimafia d.lgs. 159/2011; testo unico che ben può definirsi moderno, con valenza mista, perché caratterizzata dalla presenza di norme, al contempo, ricognitive ed innovative-giurisprudenziali.
Innovazioni giurisprudenziali attente alla normativa CEDU e soprattutto ai “casi linea” prodotti dalla stessa Corte in merito alla compatibilità del procedimento di prevenzione personale e/o patrimoniale con gli artt. 6 e 7 della normativa “interposta”.
Senza pretesa di esaustività, tale testo può schematicamente riassumersi così:
– parte ricognitiva in cui prevede la disciplina degli elementi strutturali della misura personale e patrimoniale; gli obblighi nascenti dall’applicazione delle misure stesse; il procedimento per l’applicazione della confisca nei confronti del morto (al contempo anche innovativa); l’obbligo di cauzione; la presunzione di intestazione fittizia dei beni intestati o trasferiti a terzi (coniuge e parenti);
-parte innovativa e giurisprudenziale per le norme che disciplinano: la titolarità della proposta; la documentazione antimafia; l’udienza pubblica; la tutela dei terzi (anche per diritti di garanzia) nel procedimento; l’istituto della revoca; la revocazione della confisca; il rapporto con il procedimento penale; l’amministrazione, la gestione e la destinazione dei beni confiscati; il rapporto con la procedura fallimentare.
Il testo unico Antimafia, dunque, non tradisce le intenzioni della legge delega e della commissione Fiandaca, ma rimane il sospetto che poteva farsi di più, soprattutto in tema di garanzie difensive.
Vi sono ancora nervi scoperti che, a giudizio dello scrivente, possono far sorgere dubbi di costituzionalità. Come ad esempio: l’insostenibile assenza del sindacato, nel giudizio di Cassazione, del vizio di motivazione; l’assenza di un causa di incompatibilità tra il giudice del sequestro di prevenzione e quello della confisca; l’espansione apodittica del concetto di appartenenza; l’assenza di un reale controllo nella fase esecutiva (che può essere demandata ad un magistrato unico che sorvegli alla misura stessa) della misura (come del resto ricordato ed auspicato dalla ordinanza in commento).
(Cesare Gesmundo)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
In merito al rapporto tra le misure di prevenzione e le misure di sicurezza:
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Per la giustificazione interna ed esterna delle decisioni:
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