NOTA a Cass., Sez. IV., 2 dicembre 2011, n. 112
La massima
Non è consentito ridurre il quantum dell’indennizzo per ingiusta detenzione sulla base di una pretesa assuefazione a situazioni di restrizione della libertà personale desunta dalla mera presenza di precedenti penali
Sommario: 1. La vicenda giudiziaria -2. L’impostazione della Corte di merito -3. Orientamenti giurisprudenziali -4. La posizione assunta dal Giudice di legittimità nella pronuncia in esame.
1. La vicenda giudiziaria
La Corte d’Appello di Catanzaro con ordinanza del 17 novembre 2010 aveva proceduto a liquidare una somma a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione subita da un pregiudicato, a seguìto di un procedimento penale per omicidio volontario che lo aveva visto ristretto in vinculis per otto mesi circa, dal provvedimento di fermo sino alla sentenza assolutoria; si era proceduto, nella specie, ad una riduzione dell’importo individuato dalla giurisprudenza quale dato di partenza per la determinazione del coefficiente giornaliero da moltiplicare al numero di giorni di (ingiusta) custodia presofferta.
2. L’impostazione della Corte di merito
Una volta esclusa la sussistenza di condotte dolose o gravemente colpose a carico del richiedente che avrebbero potuto determinare o contribuire a determinare -sul piano causale- la sua privazione della libertà personale con riferimento precipuo alla disposta misura cautelare, la Corte territoriale poneva, come base giustificativa di tale compressione del quantum, la circostanza che il richiedente l’indennizzo era gravato da precedenti penali “risultando assuefatto a tali situazioni”, di talché avrebbe subito una più lieve afflizione dalla detenzione sofferta, a dispetto della assai differente valutazione quantitativa cui occorre procedere nelle ipotesi di incensuratezza che, per giurisprudenza costante, espongono chi è avulso dal contesto della giustizia penale a più incisive conseguenze di natura personale oltre che ad un maggior discredito sociale.
3. Orientamenti giurisprudenziali
Prima di esaminare l’indirizzo ermeneutico avallato dalla Suprema Corte con la decisione in commento, squisite esigenze metodologiche postulano la necessità di offrire una sia pur sommaria panoramica dei principali arresti giurisprudenziali sul tema, segnatamente sul piano dei criteri per stabilire la quantificazione della somma dovuta.
Come da principio pacificamente acquisito in seno alla giurisprudenza di legittimità, l’equa riparazione per ingiusta detenzione non ha carattere risarcitorio, in quanto l’obbligo dello Stato non nasce ex illicito ma da una doverosa solidarietà verso la vittima di una indebita misura cautelare, in favore della quale devono ristorarsi, in equa misura, le dolorose conseguenze della privazione della libertà personale; ne deriva che, nel metro equitativo, in mancanza di coefficienti certi, devono essere presi in considerazione tutti gli elementi disponibili da valutarsi in un globale giudizio e con prudente apprezzamento, di guisa da compensare l’interessato delle conseguenze personali, di natura morale, patrimoniale, fisica e psichica, che la restrizione in vinculis abbia prodotto, ivi compreso il danno dell’immagine e all’identità personale.
Sul punto, con una importante pronuncia cui ha aderito la produzione pretoria successiva, le Sezioni Unite hanno rilevato che “la liquidazione dell’indennizzo per la riparazione dell’ingiusta detenzione è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi, e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, e ciò sia per effetto dell’applicabilità, in tale materia, della disposizione di cui all’art. 643 comma 1 c.p.p., che commisura la riparazione dell’errore giudiziario alla durata dell’eventuale espiazione della pena ed alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, sia in considerazione del valore “dinamico” che nell’ordinamento costituzionale attribuisce alla libertà di ciascuno, dal quale deriva la doverosità di una valutazione equitativamente differenziata caso per caso degli effetti dell’ingiusta detenzione”(In applicazione di detto principio la Corte ha confermato la legittimità della liquidazione dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione effettuata tenendo conto, fra l’altro, della circostanza che l’imputato, privato della libertà, non fosse stato in grado di interessarsi personalmente alla sua azienda, e del fatto che, per cinque anni, non avesse potuto utilizzare la somma versata a titolo di cauzione al momento della concessione della libertà provvisoria).[1]
È stato ulteriormente precisata dal massimo consesso di Piazza Cavouer la necessità che la liquidazione dell’indennizzo sia effettuata tenendo conto del parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art. 315, comma 2 c.p.p., e il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303, comma 4, lett. c) c.p.p., espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta detenzione subìta, mentre il potere di liquidazione equitativa attribuito al giudice per la soluzione del caso concreto non può mai comportare il superamento del tetto massimo normativamente stabilito.[2]
Tuttavia, se il criterio aritmetico si pone come indubbio dati di partenza nella dosimetria riparatoria, non può sottacersi, in via speculare, che la durata modesta della custodia cautelare non è, di per sé, incompatibile con il riconoscimento alla riparazione nella misura massima, trattandosi di elemento che deve entrare nel novero di quelli a cui il giudice deve far riferimento nella determinazione del quantum, senza però che ad esso debba attribuirsi, necessariamente ed in ogni caso, un valore preponderante rispetto agli altri, che il giudice deve ugualmente tener presenti ed ai quali può anzi attribuire un peso maggiore, quando ciò appaia ragionevole.
Pertanto, se nel giudizio globale della entità della riparazione entrano in gioco tutti gli elementi che possano spiegare efficacia sugli aspetti della personalità del richiedente e sulle conseguenze in termini di opinione sociale che altri abbiano maturato circa l’esperienza giudiziaria e detentiva del richiedente, non v’è revoca in dubbio che l’incensuratezza del soggetto ingiustamente privato della libertà personale (il quale, proprio perché incensurato, ricava da detta privazione, secondo l’id quod plerumque accidit, un’afflizione generalmente maggiore di quella di chi, per i propri precedenti, sia in una qualche misura assuefatto a trovarsi in analoghe situazioni), come pure lo strepitus fori, nella misura in cui questo sia determinato, come frequentemente avviene, dal fatto stesso dell’intervenuta adozione di provvedimenti cautelari, specie quando ciò avvenga a carico di soggetti generalmente considerati come alieni dalla perpetrazione di illeciti penali, costituiscono elementi atti ad essere legittimamente valutati ai fini della quantificazione del diritto alla riparazione previsto dall’art. 314 c.p.p.[3]
4. La posizione assunta dal Giudice di legittimità nella pronuncia in esame
Alla luce del compendio giurisprudenziale in materia, la Suprema Corte con la sentenza in esame stigmatizza l’apparato argomentativo della Corte calabrese laddove motiva la riduzione dell’indennizzo sulla scorta dei precedenti penali del richiedente, suscettibili di renderlo “assuefatto a tali situazioni” e, di conseguenza, forieri di una minore afflizione.
In effetti, gli ermellini ammettono l’esistenza di una divergenza interpretativa all’interno della Suprema Corte, richiamando una pronuncia secondo cui nella liquidazione dell’indennizzo dovuto a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione è legittimo operare una riduzione sulla somma giornaliera computata quale frazione aritmetica di quella massima liquidabile per legge, in ragione del fatto che l’istante abbia subìto precedenti condanne, essendo ragionevole ritenere che in tal caso il danno derivante dall’ingiusta detenzione sofferta sia stato minore alla luce di una immagine sociale già compromessa,[4] ed un’altra alla cui stregua l’ammontare dell’indennizzo non può essere ridotto in considerazione delle pregresse esperienze carcerarie subìte.[5]
Tuttavia, anche a voler seguire l’impostazione più restrittiva- evidenzia condivisibilmente la Cassazione nella sentenza in commento- la decisione della Corte territoriale frana laddove considera “quale elemento idoneo a determinare lo stato di assuefazione alla carcerazione, la mera presenza di precedenti penali a carico e non le eventuali pregresse esperienze subite dalla parte”.
A ben vedere, il ragionamento della Corte di merito risulta “inficiato da una insanabile frattura logica, atteso che viene delineata una sequenza causale, tra fattori ontologicamente disomogenei”, non potendo certo ritenersi sovrapponibili, e soprattutto produttrici delle medesime conseguenze personali, situazioni di fatto ontologicamente differenti quali, da un lato, la mera presenza di precedenti penali, e, dall’altro, le pregresse e concrete esperienze detentive dall’altro; solo queste ultime, in buona sostanza, potrebbero costituire la piattaforma motivazionale per deliberare correttamente una decurtazione del quantum indennitario.