COMMENTO A SENTENZA CORTE CASS. PEN. – SEZIONE III – N.430/2011
I. LA VICENDA PROCESSUALE
La sentenza in oggetto affronta il delicato tema della parziale incapacità di intendere e di volere derivante dalla semi-infermità, che trova il suo sbocco fattuale nei rapporti famigliari.
Sintetizzando i tratti salienti della vicenda processuale, essa vede implicato un soggetto con sindrome da lobo frontale post-contusiva derivante da sinistro stradale il quale, con azioni ripetute, sottoponeva a violenza sessuale aggravata la propria nipote, e veniva condannato in primo grado alla pena di anni sei di reclusione a seguito di giudizio abbreviato. Quest’ultimo si era svolto subordinatamente ad un esame in contraddittorio tra perito d’ufficio e consulente tecnico di parte, avente ad oggetto l’imputabilità dell’agente. Il C.T.U. aveva rilevato, a seguito della perizia effettuata, un disturbo del comportamento sessuale in modificazione della personalità che, però, nel tempo aveva lasciato trasparire una adeguata capacità di controllo delle proprie pulsioni da parte del reo, e quindi aveva concluso per la sussistenza della capacità di intendere e di volere, nel senso che tale disturbo del comportamento sessuale non era in concreto idoneo ad incidere sulla capacità di intendere e di volere. Il consulente di parte, al contrario, dopo aver inizialmente propeso per la totale infermità di mente, aveva poi sostenuto che l’imputato, pur essendosi reso conto dell’ingiustizia della sua azione, non aveva, al momento del fatto, il controllo dei propri freni inibitori, in quanto non possedeva “mezzi cognitivi pieni”. Il Giudice per l’Udienza Preliminare aderiva alla soluzione prospettata dal consulente d’ufficio, e condannava l’agente alla pena menzionata, applicando le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti. Proponevano appello avverso la sentenza di primo grado l’imputato e il difensore, richiedendo la rinnovazione dell’istruttoria, in particolar modo con esperimento di una perizia decisiva che potesse far luce definitivamente sullo stato psichico dell’imputato. La Corte d’Appello, contrariamente a quanto richiesto, confermava la sentenza del G.U.P. senza concedere la rinnovazione dibattimentale auspicata, poiché riteneva definitivamente acclarata la sussistenza della piena capacità di intendere e di volere. Di qui, il ricorso per Cassazione esperito dal difensore, per violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto il Giudice d’Appello non aveva concesso l’esperimento di un mezzo di prova decisivo e non aveva motivato in modo adeguato rispetto all’accertamento effettuato sulla imputabilità del reo.
Il ricorso viene, in definitiva, reputato fondato dalla S.C., la quale rileva come il giudice d’appello, pur avendo legittimamente indicato la mancanza di necessità di ulteriori accertamenti sulla psiche dell’imputato, non aveva sufficientemente motivato sulla propria scelta di assecondare la tesi del perito d’ufficio, la quale aveva propeso per la non incidenza della malattia in concreto riscontrata sulla capacità di intendere e di volere del reo.
II. L’INFERMITA’ DI MENTE ALLA LUCE DEL DIRITTO POSITIVO E DELL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE.
La vicenda giudiziaria poggia le sue basi sul concetto problematico dell’interferenza tra infermità mentale e imputabilità, sulla quale appare d’uopo soffermarsi, per rivisitare i punti di partenza e quelli di arrivo alla luce dei progressi delle neuroscienze e delle dispute giurisprudenziali affrontate e (apparentemente) risolte.
Il combinato disposto tra gli articoli 85, 88, e 89 cod. pen. disciplina suddetto tipo di interferenza, disponendo essenzialmente che:
1) se un soggetto compie il fatto tipico in uno stato di infermità mentale tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere, il soggetto non è punibile in quanto assolutamente non imputabile.
2) se un soggetto compie il fatto tipico in presenza di uno stato di semi-infermità mentale, ovvero di infermità mentale parziale, tale da far diminuire fortemente la capacità di intendere e di volere, sarà assoggettabile a pena ma essa sarà diminuita.
Per fondare un giudizio di non imputabilità, è comunque necessario l’accertamento avente ad oggetto il nesso eziologico tra l’infermità (o la semi-infermità) psichica e il fatto. Ciò significa che quest’ultimo deve derivare direttamente dallo stato mentale malato, trovando in esso la sua condicio sine qua non. L’infermità può essere, a ben vedere, anche fisica, ma con necessari e consistenti riverberi in chiave psichica (ad esempio, nel caso in cui il dolore fisico causi stati deliranti). La non imputabilità, altresì, non interferisce con l’elemento soggettivo del reato (si veda, ex plurimis, Cass. Pen., sez. I, n. 39266/2010), operando gli elementi soggettivi ad un piano (tipicità) diverso rispetto a quello in cui essa trova la sua collocazione (colpevolezza). La non imputabilità è, per questi motivi, soltanto idonea a causare la degenerazione dell’elemento soggettivo, tramutando il dolo in “cieco finalismo” e la colpa in “imprudenza o negligenza in senso lato”.
Il problema principale era, originariamente, quello di dare un significato preciso e compiuto al concetto di “infermità”. Si registravano due orientamenti. L’orientamento maggioritario, prospettato dai giudici della Suprema Corte, rilevava come, anche in omaggio al principio di legalità e di certezza del diritto, il suddetto termine dovesse rientrare nel paradigma strettamente medico, con ciò intendendosi che solo le infermità scientificamente etichettabili come patologia potessero causare un giudizio di non imputabilità. L’orientamento minoritario propendeva invece per una valutazione basata sulla ratio del concetto di non imputabilità, e cioè l’impossibilità, nel momento in cui si commette il fatto, di comprenderne i significati e gli effetti sulla realtà circostante. I sostenitori di tale orientamento propendevano per la tesi secondo cui fosse giusto e necessario accordare rilevanza a infermità atecniche, come le abnormità psichiche, i disturbi atipici della personalità, le psicopatie, le reazioni “a corto circuito”, le nevrosi. Nulla questio, invece, per quanto concerne la cosiddetta pazzia morale, che si sostanzia in comportamenti lesivi immorali o disumani derivanti dalla semplice assenza, nella persona che agisce, dei principi basilari della convivenza sociale, di qualsivoglia empatia o considerazione per l’esistenza altrui. Essa non incide mai sull’imputabilità, poiché il soggetto può sempre rendersi conto del disvalore della propria azione.
III. EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI “INFERMITA’ MENTALE” E RUOLO DELLA NEUROSCIENZA COGNITIVA.
Successivamente, con un filone giurisprudenziale particolarmente evidente negli anni 2005 e 2006, la giurisprudenza di legittimità operava (se non un dietro-front, almeno) un’apertura nei confronti dell’orientamento minoritario, considerando le abnormità psichiche come rientranti nel concetto di infermità “quando, per rilevanza e gravità, siano tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, proponendosi, quindi, come causa idonea ad escluderla o grandemente scemarla (Cass. pen. Sezioni Unite, n. 9163/2005, ma si vedano anche Cass. pen., sez. I, n. 16574/2005 e Cass. pen., sez. I, n. 17853/2009). Si iniziava a ritenere il concetto di “infermità” in modo estensivo, cioè in una veste più ampia del mero concetto di “malattia”. E’ proprio questa reinterpretazione che ha innescato una ridefinizione della tematica relativa all’imputabilità in chiave garantista, con tutte le conseguenze che ne derivano, sia positive che negative. Queste ultime riguardano soprattutto la percezione sociale della non imputabilità derivante da infermità di mente come di una “scusante” spesso sinonimo di una impunità non proprio gradita dalla collettività, colpita e spesso scioccata da fatti, nella maggior parte dei casi brutali, perpetrati da soggetti infermi di mente. L’evoluzione giurisprudenziale non sembra aver toccato, invece, l’ambito normativo occupato dagli stati emotivi e passionali. I primi sono definibili come alterazioni tipiche della sfera emozionale di basso rilievo, mentre i secondi sono turbamenti temporanei della psiche correlati ai sentimenti più profondi dell’animo umano (gelosia, rabbia, odio, ecc.). Per essi, la norma sancita dall’articolo 90 del codice penale non sembra essere stata rivalutata dalla giurisprudenza più moderna, persistendo le vecchie dispute giurisprudenziali e dottrinali tra chi, ancorato al paradigma legislativo, non ammette l’interferenza di suddetti stati con l’imputabilità, e chi, invece, ammette tale interferenza a due condizioni, e cioè che lo stato emotivo o passionale si manifesti in soggetto di personalità di per sé debole, e si realizzi esteriormente attraverso atti che rivelino un vero e proprio squilibrio mentale, seppur non rientrante in definizioni assolutistiche della scienza medica.
I principi ora illustrati valgono anche nel caso di semi-infermità mentale, poiché essa varia rispetto all’infermità totale non a livello qualitativo, bensì a livello quantitativo. Vale a dire che i due tipi di infermità opereranno allo stesso modo, rilevandosi però che la minore imputabilità sarà constatata nel caso in cui la psiche del soggetto sia scindibile in due aree di cui una malata e una sana. Risulta ampiamente superata, quindi, la concezione (come ritenevano, in particolar modo, alcuni Autori) che la semi-infermità andasse valutata prettamente sulla base del fatto che il soggetto agente riuscisse a svolgere agevolmente solo una parte delle attività della vita quotidiana.
Si nota, oltretutto, come una rilevanza sempre maggiore sia stata conferita alla psiche nella sua fisicità e anatomia. Recentemente, infatti, la giurisprudenza di merito (si veda Trib. Como, 20 maggio 2011 n. 536) ha spesso operato in modo da valutare se l’inevitabile riduzione del libero arbitrio, la quale genera l’impossibilità di autocontrollo e di contrasto del reo rispetto alla propria azione criminosa, possa nascere da malformazioni della materia cerebrale, in particolar modo con riguardo alle aree devolute all’attivazione dei freni inibitori. Tecniche di indagine sempre più all’avanguardia si pongono all’orizzonte della neuroscienza cognitiva, consistenti per lo più in test psicodiagnostici, esami neuropsicologici, tecniche di imaging morfologico e, in generale, attività di vaglio scientifico avente ad oggetto i geni della persona, per valutare loro eventuali legami con le caratteristiche di impulsività e discontrollo del comportamento manifestato dal soggetto sottoposto all’esame. Critiche, relativamente a questi recenti studi, sono state sollevate dal mondo giuridico come dall’opinione pubblica, i quali ritengono che essi comporterebbero il pericolo di sopravvalutare il profilo genetico e omettere, al livello processuale, l’accertamento relativo al nesso causale tra esso e il fatto tipico. Tale pericolo sembra in realtà scongiurabile attraverso le normali fasi e tecniche del contraddittorio, soprattutto laddove si assista a “scontri” processuali tra periti, i quali saranno certamente attenti a riscontrare lacune e ambiguità dell’altrui tesi argomentativa, dissipando evidentemente il rischio di tentativi generalizzanti, tentativi che dovranno però accuratamente essere eliminati dallo sguardo supervisore del giudice. A lui compete, infatti, in ultima sede, definire se l’agente sia, nel momento del fatto, privo o dotato di capacità di intendere e di volere.
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità interpreta il problema del nesso di causalità tra patologia e fatto in maniera ragionevolmente decisa, specialmente nei casi di semi-infermità. Con sentenza 36190/2007, infatti, la quarta sezione della Corte di Cassazione ha indicato un principio di diritto molto confacente al caso prospettato: in relazione ad un soggetto che soffra di un disturbo di mancanza di controllo degli impulsi, la diminuzione della pena può essere molto limitata nel caso in cui si ritenga che il reo godesse degli strumenti idonei a comprendere la riprovevolezza morale e giuridica della propria condotta mentre realizzava abusi di natura sessuale nei confronti della propria figlia minorenne, stante la macroscopica evidenza della rimproverabilità del comportamento, la quale avrebbe dovuto attivare l’inibizione anche in tale tipo di soggetto malato.
IV. CONCLUSIONI.
La sentenza analizzata si chiude, come abbiamo visto (si veda par. I) con un annullamento con rinvio. La richiesta che la Corte di Cassazione fa al giudice di merito è quella di una più attenta e rigorosa motivazione, non tanto sul perché ritenga non necessaria altra perizia, quanto sul motivo per cui ritiene acclarata la prova sulla imputabilità del reo (rectius, sulla non idoneità della malattia rilevata ad incidere sulla capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto). Dal ruolo nomofilattico del Giudice di Legittimità promana, nel caso di specie, un’attenzione volta al ragionevole accertamento delle condizioni psichiche dell’imputato, che potrebbe portare tanto ad una corretta rivalutazione dell’argomentazione fornita dalla Corte d’Appello, quanto ad un cambiamento radicale di posizione del giudice di merito, laddove egli verifichi una solida relazione tra il trauma contusivo sofferto dall’imputato e l’assenza di freni inibitori che l’hanno condotto all’azione criminosa nei confronti della propria nipote. Incidentalmente, sembra meritevole di attenzione (e forse di critica) l’affermazione del perito d’ufficio secondo il quale il mero trascorrere del tempo basti a ragionare nel senso che l’imputato fosse aduso al controllo degli impulsi, e resistente alle pulsioni sessuali deviate. Sembra, infatti, che il concetto prospettato non tenga conto proprio dell’importanza dell’ hic et nunc concernente il compimento degli atti sessuali. D’altra parte, però, il principio chiarito dalla S.C. con la sentenza 36190/2007 sembra applicabile in maniera soddisfacente al caso di specie, laddove si consideri la reiterazione delle condotte, la quale, in un soggetto (da quanto si evince, e su questo non paiono esserci dubbi) non certo totalmente non imputabile, avrebbe dovuto permettere la comprensione del significato biasimevole della propria condotta proiettata verso la lesione di beni giuridici di un proprio parente. Non pare comunque questa la sede idonea per un vaglio spettante a soggetti specializzati. Basti sottolineare come la Corte di Cassazione, nell’ambito della fattispecie esaminata, non faccia altro che esigere giustamente il ragionevole controllo e l’altrettanto ragionevole argomentazione inerente alla scelta, da parte del giudice di merito, della tesi ritenuta maggiormente meritevole di considerazione.
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