CASSAZIONE V SEZ., SENTENZA N. 47081/11
UD. 18 NOVEMBRE 2011 – DEP. DEL 20 DICEMBRE 2011
COMMERCIO DI PRODOTTI CON SEGNI FALSI
La decisione in esame presenta dei tratti di estremo interesse giuridico, in quanto parzialmente innovativa dell’orientamento, ormai consolidato, in materia di diritto di autore e di tutela del marchio, e soprattutto consente l’apertura di uno spiraglio importante ad una lettura meno rigorosa degli artt. 473 e 474 c.p.
Nello specifico, la vicenda posta all’attenzione del Supremo Collegio, riguarda la pubblicizzazione, su alcuni siti internet, di ricambi non originali per automobili (in concreto dei copriruota), recanti il marchio del fabbricante originale. In breve, il percorso processuale, ha portato al sequestro preventivo mediante oscuramento dei siti in parola, per la violazione dell’art. 474 c.p., provvedimento convalidato dal Gip di Brindisi. Successivamente l’indagato, ha proposto istanza di revoca del decreto, che veniva accolta dal Giudice sulla basa di una nuova prospettazione giuridica avanzata dalla difesa. Al che, il Pubblico Ministero ha provveduto a proporre appello al Tribunale del Riesame, che provvedeva ad annullare il dissequestro del Gip, ripristinando il precedente provvedimento ablativo. La difesa, così, ha inoltrato ricorso per Cassazione, conclusosi con l’annullamento della decisione del Tribunale di Brindisi e la reviviscenza dal precedente decreto del Gip.
Nel ricorso per Cassazione, l’indagato ha proposto una rilettura nuova della norma, in relazione al particolare caso concreto, affermando che, il marchio aveva una funzione unicamente estetica, tesa a ricalcare il modello originale, ma non inficiava l’immediata individuazione del produttore del bene complesso (automobile) e, quindi, non vi era aggressione all’interesse tutelato della pubblica fede.
La Suprema Corte ha accolto il motivo di gravame seguendo un percorso argomentativo che ha dei tratti assolutamente innovativi per la giurisprudenza penale in merito.
Innanzitutto appare opportuno ripercorrere brevemente gli orientamenti che si sono venuti a formare relativamente alla ratio della norma applicata (l’art. 474 c.p.) e ai limiti di configurazione della fattispecie delittuosa.
La Cassazione ha specificato più volte che la disciplina in esame è posta a tutela dell’affidamento che i cittadini pongono nei marchi e nei segni distintivi <<che individuano le opere di ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione>> (Cass. n. 33324/08). A tal proposito, più volte chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha dovuto ben distinguere tra il falso grossolano e quello invece idoneo a creare questa confusione nel consumatore, sostenendo, con un orientamento estremamente rigoroso, che <<ai fini della valutazione della grossolanità della falsificazione, l’attitudine della falsificazione ad ingenerare confusione deve essere apprezzata non con riferimento al momento dell’acquisto, bensì in relazione alla visione degli oggetti nella loro successiva utilizzazione da parte di un numero indistinto di soggetti>> (sent. cit.).
La giurisprudenza, in materia, è costante (Cass. n. 21787/08; n. 13867/08; n. 5237/04; n.3336/00) nell’affermare che non può considerarsi grossolano il falso, solo perché il singolo acquirente poteva facilmente riconoscere che il bene era falso, riguardo a vari indici, quali le modalità di vendita, il prezzo basso, etc. Ciò non è, quindi, sufficiente per configurare l’ipotesi del reato impossibile, in quanto la norma è posta a tutela della corretta individuazione da parte di tutti i consociati della provenienza dell’oggetto materiale della tutela, non del singolo acquirente che può essere o meno ingannato dalla contraffazione.
Non sono mancate delle pronunce di segno contrario (vd. Cass. n. 2119/00), nelle quali, seguendo un approccio in concreto, la Cassazione ha sostenuto che <<non è configurabile il reato di cui all’articolo 474 del codice penale, che punisce la vendita di prodotti con marchio contraffatto, quando l’evidente scarsità qualitativa del prodotto o il suo prezzo eccessivamente basso rispetto al prezzo comune di mercato siano rivelatori agli occhi di un acquirente di media esperienza del fatto che lo stesso non può provenire dalla ditta di cui reca il marchio, dovendosi escludere una situazione fattuale tale da rappresentare un fattore sviante della libera determinazione del compratore>>.
Nella massima in esame, invece, e soprattutto nella motivazione della sentenza, la Corte ha effettuato una disamina che riguarda, non solo le finalità della disposizione di cui all’art. 474 c.p., ma ha affrontato la problematica differenziandone la disciplina per quanto riguarda i pezzi di ricambio, o più in generale la fabbricazione di beni semplici, che assemblati costituiscono un bene complesso (è il caso dell’automobile, costituita da più parti di ricambio che nel tempo possono usurarsi o danneggiarsi e che vengono sostituite in maniera singola, senza far perdere d’identità il bene complesso).
Nella motivazione, la S. C. ha puntualizzato che, laddove il marchio venga utilizzato con funzione estetica e non quale elemento di identificazione del bene, non si integri alcuno dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 c.p., in quanto non viene leso il bene giuridico ad essi sotteso. Difatti, essendo il copriruota un oggetto di ricambio, che sovente si può danneggiare, nell’utilizzo del bene complesso “automobile”, l’apposizione del marchio non consente di sviare l’acquirente dall’origine del bene a cui quel pezzo di ricambio accede, e cioè l’autovettura stessa. Non vi è confusione riguardo a quest’ultima e quindi non vi è lesione della fede pubblica.
Nel caso in esame, invero, la Corte ha ravvisato una funzione puramente estetica del marchio e non quella, protetta dalla norma, di individuazione dell’origine del prodotto. Al riguardo ha richiamato la normativa extrapenale in materia di diritto d’autore, sia essa nazionale (artt. 21 e 241 del D. Lgs. N. 30/05), che comunitaria (Art. 6, Direttiva 89/104/CEE), nelle quali si stabilisce che il diritto del titolare del marchio, non comprende il divieto assoluto del suo utilizzo a terzi, in particolare, tra l’altro, riguardo ai pezzi di ricambio ed agli accessori. Tale disciplina trova la sua ratio nella tutela della concorrenza nel mercato, in quanto, laddove il titolare le marchio potesse inibire la vendita di manufatti identici ai suoi, per se non originali, si verrebbe a configurare una situazione di monopolio, a discapito del consumatore finale.
Alla luce di ciò, il Collegio di nomofilachia, ha ripercorso la giurisprudenza civile in materia, asserendo che in tale ambito è già riconosciuta la prerogativa, a terzi produttori di pezzi di ricambio, di applicare il marchio della ditta originale, utilizzando, quali strumenti per fugare dubbi sulla non originalità del prodotto, le modalità di pubblicizzazione e di confezionamento. Diversamente sarebbe stato se il produttore del pezzo non originale, avesse inserito elementi di novità e di creatività rispetto all’originale, generando un prodotto nuovo, nel qual caso vi sarebbe stato un utilizzo illegittimo del marchio, sanzionabile anche penalmente.
Appare anche corretto non considerare la disposizione violata, qualora non vengano apposte diciture afferenti la non originalità del prodotto sulla parte antistante il copriruota, che ne avrebbero pregiudicato l’estetica irrimediabilmente. Ammissibile invece la pratica di segnalare tale circostanza nella parte retrostante, non visibile qualora l’accessorio venga montato, ma riconoscibile in sede di acquisto.
Nel caso in oggetto, il proprietario del sito aveva specificato che si trattava di copriruota non originali, elidendo quindi il pericolo che qualche avventore potesse cadere in inganno circa la provenienza del pezzo di ricambio.
La conclusione a cui è pervenuto il Collegio è che il marchio, quanto ai pezzi di ricambio, assume una duplice funzione: identificativa, riguardo al bene complesso; meramente estetica riguardo al pezzo di ricambio. Alla luce di tale differenziazione, la Cassazione, non ritenendo configurabile la fattispecie penalistica di cui all’art. 474 c.p., né tantomeno quella di cui all’art. 473 c.p., è pervenuta alla decisione in commento, annullando l’ordinanza del Tribunale di Brindisi e permettendo il dissequestro dei siti internet.
Avv. Andrea BALLETTA
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